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Stati Uniti, Russia, Turchia, Iran, Nato. Il risiko siriano spiegato da Matteo Bressan

Mentre il cacciatorpediniere americano Uss Donald Cook si avvicina minacciosamente alle coste siriane di Tartus il mondo si chiede quando e come Washington intende colpire in Siria in risposta all’attacco chimico nella Ghuta. Un raid dimostrativo su una base, magari concordato con i russi, come avvenne nell’aprile del 2017, potrebbe restare senza gravi conseguenze. Violare lo spazio aereo difeso dalla contraerea russa sarebbe gesto ben più grave dai risvolti imprevedibili. Abbiamo chiesto a Matteo Bressan, esperto militare, Emerging Challenges Analyst presso la Nato Defense College Foundation, di decodificare il risiko siriano per capire come si evolverà nelle prossime ore.

Matteo Bressan, le manovre militari americane si concretizzeranno in un attacco nelle prossime ore o hanno uno scopo di deterrenza?

A prescindere dalle decisioni che saranno prese nelle prossime 24 ore, indipendentemente dalle risoluzioni dell’Onu sugli ispettori bocciate dai veti incrociati, gli Stati Uniti sono obbligati a portare a termine un’operazione, assieme agli alleati francesi, britannici e eventualmente sauditi.

Perché sono obbligati ad agire?

Per una questione di credibilità. Siamo al solito tema della minaccia dell’uso della forza e della messa in pratica. Nel 2013, a seguito dell’attacco chimico nella Ghuta, l’amministrazione Obama ha minacciato un attacco che poi non si è concretizzato, peraltro senza un giudizio risolutivo da parte degli ispettori sulle responsabilità di quella strage. Lo scorso anno invece un team di ispettori ha accertato l’attacco chimico a Idlib, e tre giorni dopo gli Stati Uniti hanno effettuato un raid punitivo sulla base di Homs, anche se ha avuto uno scopo essenzialmente dimostrativo.

Questo caso è diverso?

Oggi un raid punitivo in Siria, se non concordato con la Russia che controlla lo spazio aereo, può avere conseguenze gravissime. Ora si capiscono le preoccupazioni della Nato del 2015, quando venne schierato il contingente russo in Siria e il responsabile Nato per l’Europa si chiese a cosa servissero gli S-300 e S-400 russi se l’obiettivo di Putin era una campagna contro Daesh, che non ha mai avuto aerei. Un’opzione meno rischiosa sarebbe far partire il raid dallo spazio aereo libanese.

Non ci sono ancora i presupposti dunque per uno scontro frontale con l’esercito russo in Siria?

Non voglio arrivare alle valutazioni dell’ex presidente dell’Unione Sovietica Michael Gorbachev, secondo cui ci troviamo in un momento di tensione paragonabile a Cuba ’62. Ma ipotizzare uno scontro nello spazio aereo siriano è qualcosa che perfino Israele ha voluto evitare due notti fa, perché da quando è stato abbattuto un F16 un mese fa c’è il serio sospetto che la Russia abbia aumentato le sue capacità di difesa in Siria.

Macron ha specificato che la Francia prenderà parte se necessario solo a raid contro obiettivi mirati.

Macron ha fatto riferimento a siti dove si producono armi chimiche. Denunciare la presenza di fabbriche di armi chimiche in Siria è una denuncia aperta alla Russia, che aveva l’obbligo di verificare e garantire lo smantellamento di questi siti. La sensazione è che l’attacco potrebbe essere più esteso dello scorso anno ma sempre limitato a un’opzione punitiva, e non a un discorso di regime change che presupporrebbe uno scontro diretto con Mosca e con Teheran.

La precisazione di Macron può essere considerata un passo indietro rispetto alla coalizione a guida statunitense?

Macron ha fissato dei paletti, se non dovesse dare seguito a questa sua presa di posizione anche per lui si porrebbe un tema di credibilità. La Francia di Macron in più di un’occasione ha fatto marcia indietro, ha sostanzialmente ammesso che Assad può rimanere al potere, salvo poi condannare l’uso di armi chimiche. C’è un altro Paese che da sempre ha tracciato una precisa linea rossa per intervenire in Siria.

Quale?

Israele ha sempre condotto raid mirati, anche dopo il cessate-il-fuoco concordato da Trump e Putin al G20. Dal 2011 ad oggi Tel Aviv è intervenuta soprattutto per sventare la minaccia n.1: la presenza dei pasdaran iraniani e di Hezbollah sulle alture del Golan. La libertà con cui Israele ha potuto effettuare raid contro ufficiali di Hezbollah in Siria ha sollevato il sospetto che la Russia, pur difendendo il regime di Assad, non condivida necessariamente l’agenda dei suoi alleati.

La Turchia di Erdogan è presente nel nord del Paese e viene da un summit decisivo con la Russia e l’Iran. Come reagirà a un intervento americano?

La Turchia in questi otto anni di conflitto in Siria ci ha abituato a cambi di visione eclatanti. In un primo momento Ankara ha chiesto la rimozione di Assad come precondizione per un negoziato. Poi la giravolta di 180° su Aleppo a fianco della Russia, anche perché il Cremlino ha supportato il governo turco in occasione del tentato colpo di Stato del 2016. Ora Erdogan ha criticato aspramente l’attacco chimico nella Ghuta, ma è evidente che sul conflitto in Siria la Turchia, e lo ha dimostrato il vertice con Rohani e Putin, si sta allontanando dalla Nato.

Che piani ha Erdogan per la fascia siriana sotto il controllo del suo esercito?

La Turchia ha fatto rientrare nel cantone di Afrin 160mila profughi siriani, l’obiettivo è portarne almeno 600mila. In questi anni Ankara ha ospitato più di tre milioni di profughi siriani, adesso l’obiettivo è riportarli nella regione dei curdi per alterare la composizione demografica di quelle terre.

Ci sono i presupposti per un intervento della Nato qualora fossero accertate le responsabilità dell’attacco chimico?

Più volte si è cercato di tirare in ballo la Nato nella vicenda siriana, soprattutto dopo l’abbattimento dell’aereo russo. Ma oggi mi sembra molto difficile, anche a fronte delle posizioni di alcuni alleati che non sono favorevoli a un intervento dell’Alleanza.

L’Unione Europea al momento non ha preso una posizione ufficiale.

L’Unione Europea ha fortemente criticato il presunto uso di armi chimiche. Francia, Regno Unito e Germania si stanno sbilanciando, l’Italia paga il prezzo di una fase di delicata transizione politica. Dalle prossime ore in Siria dipende invece l’importante missione militare in Libano, dove sono impegnati diversi Stati membri dell’Ue, l’Italia in primis. Una deflagrazione del conflitto siriano può straripare nei Paesi confinanti e mettere a rischio la missione Onu.

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