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Trump cambia rotta sul Tpp: la Cina, gli alleati, il partito

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Il presidente americano Donald Trump ha ordinato ai top consiglieri commerciale ed economico (Robert Lightizer e Larry Kudlow) di valutare un piano per rientrare nel TPP, la Trans Pacific Partnership, un accordo multilaterale più volte criticato come “un disastro” dall’attuale Casa Bianca, che tra le prime mosse della sua azione di governo aveva tirato fuori gli Stati Uniti dal processo di discussione dell’intesa.

Il Tpp era stato pensato dall’amministrazione Obama – e questo c’entra moltissimo con la scelta iniziale di Trump, che ha molto calcato la propria retorica sottolineando le differenze tra lui e il predecessore (e d’altronde è su questa retorica agguerrita e spesso ricca di alterazioni delle realtà che il repubblicano ha preso voti). Avrebbe dovuto includere gli Stati Uniti e altri undici paesi (tra cui Giappone, Vietnam, Singapore e Australia) e aveva come idea profonda quella di creare nel Pacifico una rete di libero scambio guidata dagli americani. Erano i tempi del “Pivot to Asia” obamiano. L’obiettivo di fondo: isolare commercialmente, economicamente, politicamente, la Cina, attraverso quel network di alleati.

Trump ha sempre sostenuto che fosse un pessimo accordo, ma da mesi i media americani scrivono che il presidente sta pian piano tornando sulla sua decisione. Il momento è cruciale, perché l’amministrazione americana ha avviato una politica molto aggressiva contro la Cina – alzando tariffazioni più simili a sanzioni che a dazi – e dunque la costruzione di quel sistema ad isolamento cinese torna una strategia importante.

Il problema per Trump è il solito: lo sbilanciamento. Secondo la sua visione, quei paesi inclusi nel TPP sono scrocconi (termine semplificativo) che beneficiano della partnership americana sotto diversi punti di vista, da quello commerciale a quello politico-militare, ma danno poco in cambio. In particolare, per il Prez è deplorevole che nei confronti degli Stati Uniti godano tutti di uno sbilancio commerciale evidente e non facciano niente per abbassarlo.

Il sunto di come la vede il presidente è (come spesso accade) tutto in un tweet. Dice Trump che gli Stati Uniti potrebbero anche ripensarci ed entrare nel TPP (attenzione: è una mossa forte, per mesi Trump ha difeso la scelta di starne fuori come uno dei successi della sua amministrazione), ma sono disposti a farlo soltanto se l’accordo sarà “sostanzialmente migliore” di quello “offerto” a Barack Obama. E poi sottolinea che per Washington (e soprattutto: per le sue preferenze al bilateralismo piuttosto che al multilateralismo) potrebbe anche andar già bene così, attraverso gli accordi “BILATERAL” (scritto in maiuscolo, appunto) già chiusi con sei di quegli undici paesi.

Poi l’affondo sul Giappone. Trump dice che gli Stati Uniti stanno lavorando con Tokyo (“Il più grande di quei paesi”) e ricorda che i giapponesi “ci hanno colpito duro sul commercio per anni”. Se Trump rientra nell’intesa multilaterale che considera vincente, buona parte del merito andrebbe al grande lavoro politico-diplomatico del premier Shinzo Abe (un successo paragonabile ai vertici tra Pyongyang e Washington intavolati dal sudcoreano Moon Jae-in), ma Trump parla chiaro.

La presenza di in Giappone della Settima Flotta americana, è un interesse altamente strategico per gli americani, ma è anche una garanzia di protezione per Tokyo che va oltre ogni valore economico. E per questo secondo Trump il rapporto tra i due paesi non può soffrire del peso di un deficit commerciale pro-nipponico. Un ragionamento al rilancio simile a quello fatto con la Corea del Sud: Seul è un alleato ferreo americano, ma Trump l’accusa di non essere “fairy” nelle questioni commerciali; anche con il Sud c’è un negoziato sul trade, che però il presidente ha congelato in fase di chiusura.

In via speculativa si potrebbe pure dire che Trump stia bluffando, o lo abbia fatto finora. Come per i missili punitivi sulla Siria, con alcune dichiarazioni e mosse forti, cerca di scoprire le carte delle sue controparti: che siano avversari diretti come i cinesi, o alleati competitivi come giapponesi, sudcoreani o europei.

Un altro appunto: mesi fa, dopo che Trump aveva portato gli Stati Uniti fuori dal TPP, erano girate notizie su un possibile coinvolgimento nel nuovo accordo della Cina. Sarebbe stato un totale sconvolgimento sullo spirito che secondo gli americani avrebbe dovuto animare l’intesa: quei paesi però hanno bisogno di creare un sistema includendo i principali competitor, e dunque se non c’è l’America si guarda alla Cina. I contatti con Pechino, secondo le fonti giornalistiche informate sui fatti, erano tenuti proprio da sudcoreani e giapponesi.

E ancora: la scelta di scatenare la serie di mosse e contromosse commerciali con la Cina ha messo in allarme molti repubblicani. Ci sono settori aziendali americani che risentirebbero molto dei contro-dazi alzati da Pechino, per esempio quello dell’agricoltura. Fra sette mesi ci sono le elezioni di metà mandato, sulle quali si basa l’armistizio tra partito e presidenza: la conservazione del controllo totale in Congresso. Quanto potrebbero pesare le scelte commerciali aggressive di Trump sul voto? Ecco allora che rientrare nel TPP è per certi versi anche un metodo per rassicurare le porzioni più classicheggianti del Partito repubblicano, quelle che non amano l’isolazionismo.

Non a caso l’ordine presidenziale è arrivato dopo una riunione con alcuni legislatori repubblicani: immancabile, in questi giorni di scontri commerciali, è arrivato il commento di Ben Sasse – super assertivo senatore dal Nebraska che sta guidando il fronte anti-dazi e tra i presenti alla riunione con Trump. Dal Prez è arrivata una “good news”, dice Sasse. Il punto che rientrare nel TPP ora non è per niente facile, dato che gli undici paesi rimasti hanno raggiunto già un accordo generale, e dopo l’uscita dalle negoziazioni voluta da Trump, sono state tagliate alcune richieste precedente avanzate dagli Stati Uniti.

 



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