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Perché è ora che i 5 Stelle e Lega si presentino al Parlamento

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Il parto del nuovo governo si sta dimostrando più difficile di quanto si potesse immaginare. Forse era prevedibile, data la contrapposizione dei diversi programmi elettorali: il produttivismo del nord, la ricerca di una maggiore assistenza pubblica nel Mezzogiorno. Tra il bianco e il nero delle due proposte è anche possibile trovare le 50 sfumature di grigio. Ma l’operazione richiede tempo.

Soprattutto una grande maturità dei rispettivi militanti, chiamati ad avallare il necessario compromesso. Condizione, quest’ultima, che non sembra sussistere nella dovuta misura. Almeno a giudicare dalle riserve che dilagano nella rete. Del resto, perché meravigliarsi? In campagna elettorale si è fatto di tutto per semplificare, con slogan immaginifici, una situazione fin troppo complessa, come quella italiana.

Si spiega, allora, perché sia i 5 Stelle sia la Lega, seppure con strumenti diversi, abbiano sentito l’esigenza di ascoltare preventivamente le rispettive basi. Saranno la piattaforma Rousseau e i gazebo a fornire le necessarie indicazioni. In apparenza un semplice esercizio democratico. Nei fatti qualcosa che incide, ancora una volta, sulle convenzioni costituzionali del nostro Paese. Ancora una volta: dopo aver posticipato l’ordine dei fattori. Prima il programma e solo dopo la ricerca di un nome per quel presidente “terzo”, che ancora non si vede.

Quest’ulteriore scelta, seppur legittima nell’ottica della libera organizzazione di qualsiasi forza politica, qualche problema lo pone. Il giudizio sul programma di governo non spetta ai singoli militanti, ma al Parlamento. Chiamato a dare la fiducia nel rispetto di una procedura carica di formalismi e di simbolismi. Che succederebbe, infatti, se i risultati del mini-referendum tra i militanti non concordassero con il voto finale delle due Camere? Quale esito prevarrebbe?

La nostra Costituzione per risolvere alla radice questo problema aveva previsto (articolo 67) il divieto del “vincolo di mandato”. Ogni membro del Parlamento, infatti, rappresenta la Nazione e quindi deve poter operare in piena libertà. Non v’è dubbio, invece, che il ricorso preventivo a un’autorizzazione extra ordinem, come quella richiesta a privati cittadini (i militanti), alteri questo schema. Fino a mettere in discussione lo stesso vincolo di mandato. Ma in questo modo si rischia di prefigurare qualcosa di diverso dalla forma della democrazia parlamentare.

É il primo atto di una democrazia diretta? Siamo piuttosto scettici. L’esperienza insegna che i programmi, nel fuoco della governance effettiva di un Paese, lasciano un po’ il tempo che trovano. Vanno continuamente adattati e rimodulati al variare delle condizioni in cui il governo è costretto a operare. Specie in un momento in cui, a livello europeo, si preannunciano riforme importanti e fuori dell’ordinario. Che farà la delegazione italiana, prima di assumere le necessarie decisioni? Riunirà il “triunvirato” (Salvini, Di Maio ed il presidente “terzo”) per cercare una soluzione condivisa? Per poi sottoporre il faticoso compromesso ai propri militanti?

Come si vede alcuni dei grandi “cambiamenti” annunciati non sono né buoni né cattivi. Sono semplicemente irrealizzabili. É bene allora che i principali protagonisti di questa complicata vicenda, con un gesto di coraggio, ne prendano atto. E si assumano le relative responsabilità. Facciano le scelte che ritengano giuste e vadano in Parlamento, dopo aver ricevuto la necessaria investitura da parte del Presidente della Repubblica. Non perdano ulteriore tempo, complicandosi ulteriormente la vita. I militanti hanno diritto a far sentire la propria voce, ma nei tempi e nei luoghi opportuni. Sempre che non si sia alla ricerca di una foglia di fico, per nascondere disaccordi ben più profondi.

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