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Disintermediazione e politica, non è qui (e adesso) la festa

Di Franco Ferraro
popolo lega

“I media si integrano perfettamente ad apparati sociali in linea di principio non mediali, fondendosi con essi”, e “non è più possibile stabilire con chiarezza cosa è mediale cosa non lo è”. Così Ruggero Eugeni, professore ordinario di Semiotica dei Media alla Cattolica di Milano. A lui e alle sue parole pensavo (e penso) in questo bailamme politico segnato da una poderosa disintermediazione. È la rete bellezza. Salvini e Di Maio riders del web, puntualissimi, rapidissimi, iperconnessi. Non solo disegnano l’agenda politica, con raffiche di tweet, ma l’analizzano, giudicando, sentenziando. Spazzati via i tradizionali intermediari, la loro sacralità, scavalcati ruoli, rapporti e regole, ecco gli attori della politica passare dietro “la macchina da presa”.

Creano e diffondono. Sono i nuovi players della rappresentanza. Di fronte a loro il popolo di internet, fruitori e attori anch’essi di quella che sulla carta è democrazia partecipativa, ma troppo spesso è una prateria selvaggia nella quale scorrazza una virulenta frustrazione. Ma disintermediare vuol dire accorciare, ridurre, velocizzare. “Lo sviluppo negativo dei mercati porterà gli italiani a votare dalla parte giusta” twitta un giornalista che intervista il commissario al Bilancio europeo Guenther Oettinger. (Il giornalista poi smentirà, ndr) Salvini risponde tre minuti dopo: “Pazzesco, a Bruxelles sono senza vergogna. Se non è una minaccia questa. Io non ho paura”.

Lo scambio è rapidissimo: i siti d’informazione inseguono, arrivano dopo. Il tempo è carnefice e vittima. E noi ci siamo dentro questo tempo. Ma è un tempo definito, preciso, oppure il suo recinto è divelto? L’illuminato Luciano Floridi sostiene che “Oggi viviamo in una bolla creata da Google, Facebook, Apple, Amazon. Noi operiamo anche contro di loro, ma rimaniamo sempre all’interno della bolla. Come ci sono riusciti? Attraverso un sistema di eliminazione dei diritti. In un’economia del dono nessuno è cittadino o cliente: noi siamo semplicemente ospiti. E per un ospite protestare è come andare a casa di qualcuno e poi lamentarsi del fatto che la festa non è un granché. Però questa è l’unica festa che c’è. Se ti lamenti fuori dalla festa, non ti sente nessuno. Se invece ti lamenti dentro la festa, stai comunque dentro la festa”.

E quindi che fai? Non balli? In questo scenario magmatico, dove la politica è un deejay impazzito, il concetto di disintermediazione danza di tutto. Cerchiamo di andare tutti a tempo. Eppure c’è chi – come l’acuto Ugo Morelli – si dice convinto che “la maggioranza delle persone usa subendoli i social network, il sistema mediatico e i molteplici canali di informazione e comunicazione. Più che una post-verità sembra affermarsi una surverità, un potere sovralegale che non è raggiungibile con gli strumenti della critica e del conflitto politico come finora li abbiamo conosciuti”. E quindi chiudo: noi giornalisti dovremmo produrci in uno sforzo elettivo. Aiutare a demolire quelle “camere dell’eco” – secondo la visione anglosassone – dove non esiste la verità dei fatti, dove, scriveva tempo fa The Indipendent, “ci siamo ritirati ripetendoci a vicenda opinioni di cui siamo già convinti”.



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