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Usa e Arabia Saudita contro Iran. Cosa accade se Trump lascia l’accordo nucleare

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John Bolton, attuale national security adviser della presidenza Trump al posto del già giubilato generale McMaster, ritiene che l’accordo del 2015 con l’Iran, quello riguardo proprio al nucleare di Teheran, sia una “sconfitta strategica” per gli Usa. Bolton ritiene, inoltre, che sarebbe sempre meglio seguire l’esempio dell’abbattimento di Osirak il 7 giugno del 1981, con l’operazione israeliana “Opera” (o Babylon) o l’attacco del 2007, sempre israeliano, al probabile reattore nucleare di Damasco nell’area di Deir-ez-Zor. Fabbricato dai coreani del Nord, comunque. Era quella l’operazione, secondo la denominazione di Israele, detta “Outside the Box”. Quindi, sempre per ripetere le parole di Bolton, “per bloccare l’Iran, bombardalo”. L’idea del national security adviser nordamericano era anche quella, non molto tempo fa, di bombardare la Corea del Nord solo per bloccarne la sua attività nucleare. E le attività di immediata rivalsa sul territorio sudcoreano come le calcoliamo, nella equazione strategica di Washington?  “Danni collaterali” ovvero la distruzione dell’unico alleato credibile, a parte il Giappone, in tutto il sud-est asiatico. Poi, è da poco arrivato, e non certo per timore della semplicistica bomb religion boltoniana, l’accordo tra le due Coree e l’invito alla trattativa diretta, da parte di Kim Jong-un, nei confronti del presidente Trump. Le armi non fanno mai politica, comunque. Ma possono essere usate, sempre il meno possibile, se si ha comunque in testa una strategia politica nei confronti di quei Paesi, come l’Iran e la Corea del Nord, che non hanno mai avuto paura del carpet bombing di Washington. Qualora, però, si arrivasse alla distruzione dei paesi più riottosi nei confronti delle brillanti idee di Bolton, quale sarebbe allora il risultato politico? Semplice: la totale perdita di valore della parola degli Stati Uniti verso tutti e ognuno degli altri membri del P5+1, la probabile e rilevante controazione residua sia di Pyongyang che dell’Iran su Corea del Sud e Libano e (naturalmente) Israele; infine l’innesco, quasi inevitabile, di una catena di azioni e reazioni che farebbe bruciare tutto il Grande Medio Oriente. Primo obiettivo? Pensateci appena un attimo. Esso è, ovviamente, la totale insularizzazione dell’Europa, che crede ancora che la sua unione e la sua moneta unica non siano avverse agli interessi di lungo periodo degli Usa.

Se ne accorgeranno presto, a Bruxelles e a Londra, che l’automatismo strategico ereditato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale non ha più alcun valore, nelle relazioni tra le due sponde dell’Atlantico. Ma l’obiettivo razionale, allora, di questa azione militare contro coreani del nord e iraniani quale potrebbe essere, a parte la libido da dottor Stranamore di alcuni decisori a Washington?  Molto probabilmente proprio nessuno, oppure il peggiore possibile, ovvero la chiusura di tutto il sistema tra Suez e il Golfo Persico, infine la non-viabilità strategica di tutto il mondo islamico, sciita o sunnita che sia, infine il blocco totale del nesso energetico, politico, strategico e difensivo tra Unione Europea e universo coranico. Che non farebbe affatto comodo nemmeno agli Usa. Il fatto è che, stranamente, i noti e antichissimi errori dell’intelligence statunitense sull’arsenale di Pyongyang e su quello siriano o iracheno, o anche libico, fanno pensare, proprio ad una gran parte dell’establishment della difesa Usa, e Bolton lo dice chiaramente, perfino che occorra bombardare di più, non di meno, l’asse del Male. Meno ne so, di Siria, Iran e Corea del Nord, più li distruggo. Una idea molto logica. Dalla quale deriva che si bombarderebbero anche i posti sbagliati. Immaginiamo inoltre qui quanto peserebbe un bombing tattico sulle postazioni nordcoreane, proprio ora che Pyongyang sta iniziando un dialogo sensato, verificabile e utile con Seoul e i suoi alleati strategici, ovvero Tokyo e Washington.  La conseguenza logica sarebbe l’abbandono degli Usa da parte di Seoul e Tokyo, come minimo.  Il tutto mentre Trump dichiara ai quattro venti che vuole andarsene dalla Siria e far impegnare quindi i suoi alleati sunniti sul terreno, che gli risponderanno, facile profezia, picche. Sono tutte, quindi, ipotesi molto pericolose, per gli Usa e per l’intero occidente, che si troverebbero a non avere più credibilità, peso, ruolo alcuno in tutta l’Asia. Perdere la faccia e il valore della propria parola, per una potenza come gli Stati Uniti, scegliere sempre e spesso irragionevolmente la via delle armi, anche quando è tutt’altro che priva di pericoli, sono tentazioni sataniche che gli Usa devono evitare in tutto il Medio Oriente e in tutta l’Asia. Le controargomentazioni al “carpet bombing” di Bolton sono, quindi, perfino ovvie.  In primo luogo, la repubblica sciita di Teheran ha, finora, per quanto risulta dai dati emersi all’ultima riunione (tenuta intorno al 20 marzo 2018) del P5+1 (Cina, Francia, Germania, Russia, Gran Bretagna, Regno Unito e Usa) ovvero il gruppo che ha raggiunto il deal nucleare con l’Iran del 2015, del tutto eseguito le norme contenute nel trattato; e questo secondo i dati ufficiali della Iaea. Il rapporto del 22 febbraio della Iaea è stato inoltre accettato da tutti i membri del Jcpoa, Usa compresi, che hanno preso atto della “continua aderenza” iraniana alla lettera e allo spirito del trattato del 2015. Abbattere con le bombe, se mai ci riusciranno senza incendiare i confini, uno Stato che tutti i firmatari (compresi gli Usa, lo ripetiamo) ritengono ufficialmente corretto riguardo alla esecuzione delle norme contenute nel Joint Comprehensive Plan of Action? Che senso ha? Per raggiungere, magari, la cantonizzazione della Siria? Parafrasando Voltaire, un grande male per un piccolo bene. L’E3, casomai, ovvero il gruppo delle tre potenze europee che fa parte del P5+1, ha fatto subito notare, in un rapporto riservato, che si potrebbero sanzionare altre nuove persone ed entità, già identificate, che hanno collaborato ai test missilistici (convenzionali) iraniani e alla collaborazione, ormai settennale, di Teheran con Damasco, per chiudere la guerra contro il jihad sunnita sul territorio siriano.  Idea tedesca appoggiata subito dalla Francia, che teme lo scardinamento delle sue posizioni in Siria e altrove. E Berlino ha già chiarito che non parteciperà ad alcuna operazione militare in Siria in coordinamento con le altre potenze occidentali.

Per Bolton, peraltro, l’unica alternativa al sedicente califfato sirio-iraqeno sarebbe, seguendo alla lettera le sue dichiarazioni, un nuovo stato sunnita in Siria. Bene, e come avremmo la garanzia che questo nuovo stato sunnita non sarebbe presto un safe haven per il jihad califfale, che non è stato ancora sconfitto tra Siria e Iraq?  Ma i sauditi, i turchi, il Qatar hanno sempre avuto idee affatto diverse su come dovrebbe essere questo nuovo stato sunnita, che sarebbe ancora, probabilmente, alla mercé dell’estremismo jihadista. Che si espanderebbe in Iraq e in Giordania, immediatamente, mettendo in crisi proprio l’equazione strategica sbilenca che gli Stati Uniti hanno lasciato sul terreno dopo le frettolose e ambigue vittorie contro Saddam Husseyn. Quale ipotesi operativa sceglierebbe allora Washington, nel caso si distruggesse la Siria per cantonizzarla etnicamente e secondo faglie religiose?  Una Siria frazionata e, appunto, cantonizzata come una valle svizzera però non serve a nessuno, certo non ad Assad, ma nemmeno ai vari partecipanti alla guerra contro di lui, compreso il jihad califfale. Ma nemmeno agli Usa, se ci si pensa bene. I sauditi, nella prima fase della guerra contro Assad, avevano puntato le loro carte su uno sciita libanese, Okab Sakr, un vecchio cliente della famiglia Hariri. La quale, peraltro, non gode, notoriamente, oggi i favori del nuovo padrone di Riyadh, il principe Mohammed Bin Salman. I qatarini operavano, nel teatro siriano, con un defezionista del regime di Assad e altri due comprimari minori; e il nuovo acquisto di Doha si chiamava Abdulrahman Suwais. Ma lo scontro geopolitico (e economico) tra i sauditi e il Qatar si è subito trasferito ai clienti siriani locali delle varie potenze arabe, con il Qatar che adoperava forze legate alla Fratellanza Musulmana e i sauditi che utilizzavano Sakr, il loro intermediario per la guerra contro Assad, che però raccoglieva battaglioni di jihadisti non ancora legati al sedicente califfato di Al Baghdadi.  Ma senza andare troppo per il sottile. Peraltro, tutti e tre i Paesi arabi e musulmani che hanno sostenuto i sunniti nemici di Assad hanno sempre pensato che, a parte le loro rivalità, sarebbe comunque arrivato, prima o poi, lo Zio Sam a risolvere per loro la questione siriana. Ed è questa percezione l’unico elemento razionale che osserviamo nelle attuali posizioni del Presidente Trump.  Obama, però, non reclamò affatto il criterio della sua “linea rossa” nel settembre 2013, dopo che Bashar el  Assad, se è vero quel che si dice, aveva usato armi chimiche contro una parte “ribelle”, ovvero sunnita e para-jihadista, della sua popolazione. Solo nell’estate 2014, peraltro, subito dopo le dimissioni del principe Bandar bin Sultan da capo dell’intelligence di Riyadh, iniziò la vera collaborazione tra sauditi, CIA e Dipartimento di Stato sul terreno siriano. Prima della chiusura, operata dal sedicente califfato, del confine sirio-iraqeno, nell’estate 2014, i molti gruppi sunniti operavano con le sole, ma vastissime, finanze dei vari donatori privati, senza molto sostegno dal governo saudita. Ma, dopo l’espansione del suddetto califfato i tre paesi, Arabia Saudita, Qatar, Turchia, si sono accordati per sostenere un solo movimento sunnita-jihadista, il Jaysh-al Fatah, l’”Armata della Conquista”. Ma qualche soldo è arrivato ancora alla multicolore e caotica opposizione sunnita al regime alawita e pluralista di Assad. Il movimento della “Conquista” era coordinato dallo studioso coranico saudita Abdullah Al Muhaysini, e le forze del jaish operavano soprattutto a Idlib e a Hama e Latakia. Le vene giugulari del sistema russo-siriano, dunque. Oggi il principe saudita Mohammed bin Salman afferma però, dalle colonne del Time dei primi di aprile 2018, che “Bashar può rimanere”. Ovvio il ragionamento del principe saudita: Riyadh vuole finanziare (ci vorrà forse un trilione di Usd) il regime di Bashar el Assad, anche se lo ritiene taqfiro, apostata, per evitare l’ulteriore penetrazione iraniana a Damasco. Una elasticità strategica saudita che si spinge perfino alla creazione di un nuovo rapporto con lo stato ebraico.  E Washington, ha forse la stessa fantasia di Riyadh? La nuova “alleanza militare sunnita”, creata anch’essa nel 2015 intorno alle forze di Riyadh, non può però rimpiazzare il peso militare e strategico degli Usa nell’area. E quindi, secondo Bolton e molti suoi collaboratori, gli Usa dovrebbero fare tutte le spese della Alleanza Militare Islamica, una Nato araba volta contro gli sciiti e a favorire l’equilibrio petrolifero attuale del sistema sunnita dell’Opec. E per quale motivo, allora, Washington dovrebbe portare tutta questa acqua al mulino dei sauditi, proprio quando lo shale oil and gas rendono autonomi gli Stati Uniti dal punto di vista energetico?  Peraltro, il capo di questa Alleanza, il generale pakistano Raheel Sharif, non ha ancora menzionato nessuna operazione in corso tra Iraq, Siria e Afghanistan durante l’ultimo incontro della “Nato sunnita” a Manama, nell’ottobre 2017.

Il limite dell’impegno sunnita in Siria è, quindi, già stato, tacitamente, raggiunto. Se quindi gli Usa si impegneranno a combattere, supinamente e inutilmente, l’Iran, dopo la distruzione manipolata del Jcpoa, faranno solo gli interessi di Riyadh e non i propri. Una ennesima long war che non porterà a nulla, solo ad un aumento del budget militare Usa, il noto, ormai, keynesismo militare nordamericano. Interessi veri degli Usa, non più servi degli Al saud, che sarebbero, poi, quelli di stabilizzare il sistema mediorientale al più basso potenziale nucleare e convenzionale possibile, magari con una conferenza tra il P5+1 e Teheran rivolta anche al nuovo ridisegno strategico di tutta l’area, da concordare anche con Gerusalemme. La sanzione europea contro l’Iran, comunque, il succedaneo per la rottura americana del Jcpoa che, con tutta probabilità, avverrà dopo il 12 prossimo venturo, dovrebbe avere, comunque, il sostegno di tutti i 28 membri dell’Unione. Questo sarebbe il progetto dell’E3, i Paesi UE del P5+1. È questo, evidentemente, solo un modo di evitare il limite del 12 maggio proposto dal Presidente Trump, uno spuntino di buona gastronomia europea offerto agli Usa per evitare che arrivino al pessimo pranzo militare contro Teheran. Ma come reagirebbero, poi, gli altri firmatari non europei dell’accordo del 2015, vedendo come Washington si comporta sempre di più come un attore semi-legale; e quale elemento del tutto egoistico nel concerto geopolitico internazionale? Certo, se gli Usa se ne vanno unilateralmente dal Jcpoa, le probabilità di una guerra contro l’Iran si moltiplicano, ma è certo che la vinca rapidamente e senza danni a largo raggio Washington? No. Siamo, poi, ancora sicuri che il mondo futuro sia ancora unipolare come quello immediatamente successivo al 1989, come pensano ancora alcuni residuali e ingenui teorici delle operazioni Usa in Iraq e Afghanistan?  Non si dovrebbe forse affermare oggi che entrambe le grandi “esportazioni della democrazia” sono state un evidente fallimento militare, strategico, economico e geopolitico?  L’Iraq è stato quasi regalato all’Iran, che infatti fa già leva sulla maggioranza sciita della popolazione irachena, l’Afghanistan è ancora un buco strategico dove nulla è ancora deciso, dopo quasi due decenni di guerra, mentre la Cina costruisce la sua ferrovia Pechino-Kabul. Allora: se l’Ue accetta il diktat di Trump sull’Iran, per limitare o abolire le attività missilistiche, anche convenzionali, di Teheran e il suo sostegno al regime di Bashar el Assad, non realizza nessuno dei suoi obiettivi. Nemmeno in questo caso è pensabile che gli Usa contengano le loro richieste nei confronti di Teheran.  L’Iran potrebbe, comunque, scegliere di rimanere nel perimetro dell’accordo del luglio 2015, bloccando però ogni accordo regionale con le potenze occidentali e reagendo immediatamente alle minacce locali. Altra ipotesi, già in parte verificata nei recenti incontri tra il titolare degli esteri di Teheran con il governo britannico, potrebbe essere quella di collaborare con i singoli Paesi europei del P5+1 su temi esterni al trattato sul nucleare, come, in questo caso, per la risoluzione della rivolta sciita deli Houthi nello Yemen meridionale.

Altra ipotesi, ancora, potrebbe essere quella di Trump che se ne va, insalutato ospite, dall’accordo Jcpoa ma che però non impedisce alle parti europee di continuare a avere rapporti economici con Teheran, evitando le sanzioni secondarie e non territoriali, soprattutto nel settore finanziario e bancario. Scenario improbabile, la guerra in Medio Oriente è anche una guerra contro l’Europa, per la sua finale destrutturazione come alleato degli Usa che ha creduto di essere più importante di Washington. Ma tutto può essere. L’erraticità della attuale presidenza Usa fa ben sperare. Se poi Cina, Russia e UE rimangono comunque nel trattato del 2015, l’Iran avrà tutte le ragioni per rimanere dentro il perimetro del Jcpoa. E distruggere così ogni giustificazione nordamericana all’attacco militare contro Teheran o a una ulteriore fase di sanzioni solo Usa. Inoltre, Teheran, data la irragionevole e mai risolutiva presenza Usa in Yemen, Afghanistan, Siria, Iraq e altrove in Medio Oriente, potrebbe anche giocare la carta della pressione militare ulteriore contro obiettivi di Washington in tutti questi quadranti; rendendo allora le azioni nordamericane estremamente costose e, soprattutto, dannose per uno o più alleati sunniti degli americani. Se invece Trump reimmette tutte le sanzioni, comprese quelle secondarie, ma uscendo dal Jcpoa, allora l’Iran potrebbe uscire anch’esso dal trattato del luglio 2015 ma rimanere, e le due cose non sono affatto collegate, nel sistema della non proliferazione nucleare diretta dalla Iaea.  Anche qui, quale sarebbe, poi, la ratio di un futuro attacco militare di Washington all’Iran?  Russia e Cina manterrebbero, con ogni evidenza, i rapporti con Teheran, regalando così tutto l’arco sciita a russi e cinesi, che lo useranno egregiamente per interdire ogni presenza nordamericana oltre il Golfo Persico. E allora la sottoposizione strategica degli Usa a Riyadh sarebbe quindi completa. Peraltro, gli iraniani potrebbero fare qualche mossa a sorpresa come quella recente di Kim Jong-un; e portare inevitabilmente gli Usa al tavolo bilaterale, stavolta, delle trattative sul nucleare e perfino sul convenzionale. E da posizioni di forza. L’Arabia Saudita, avendo poi giocato tutte le sue carte sulla lotta all’Iran, sarebbe definitivamente spiazzata e non potrebbe optare che per un sostegno cieco agli Usa durante le nuove trattative. Che non è detto sarebbe tale da soddisfare tutti gli interessi regionali sauditi. Infine, lo scenario meno probabile potrebbe essere quello di una Ue che riesce a convincere gli Stati Uniti a rimanere in pieno nel Jcpoa, senza sanzioni né aggiuntive né quelle già previste. Ipotesi molto improbabile, è ormai chiaro che il deep state nordamericano voglia “portare la democrazia” anche in Iran e, magari, nella parte sciita-alawita della Siria, destabilizzando il Paese-cuscinetto più importante del Medio Oriente e facendo il gioco, alla fine, di Russia e Cina. Che si terranno ben salde, ovviamente, le parti non sunnite della cantonizzazione siriana e, su quelle, opereranno per arrivare fino alla penisola arabica, condizionando pesantemente il cantone sunnita sognato da Bolton.  Ciò non avverrà con la guerra, naturalmente, ma con gli accordi economici e infrastrutturali che già vediamo all’opera.


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