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Aldo Moro, mediatore tra occidente ed oriente

Di Gennaro Salzano
aldo moro

A quarant’anni dalla scomparsa di Aldo Moro, a fianco delle ancora inevitabili attenzioni che vengono riservate alla sua morte, finalmente stanno prendendo corpo numerosi studi sulla sua azione politica, che ha interessato, praticamente, tutti i campi dell’attività sia di governo sia di partito.

Anche la politica estera, forse in modo particolarmente ampio, trova in Moro uno dei suoi più autorevoli interpreti. Nel solco della politica di amicizia nata sotto l’egida del pacifismo cattolico, da La Pira a Giovanni XXIII al Paolo VI della Populorum progressio, Moro pone al centro della sua azione diplomatica la costruzione di condizioni di dialogo tra i protagonisti della scena internazionale.

Era, in lui, un portato culturale che non voleva affatto significare, come si è spesso sostenuto, soprattutto in epoca a lui contemporanea, arrendevolezza o scarsa capacità di decisione. Tutt’altro. Basti pensare, per confutare questa lettura superficiale, la forte copertura politica che Moro, insieme a Fanfani, ha dato alle iniziative di Enrico Mattei in Medio Oriente. Una copertura che era, di fatto, una vera e propria prova di forza con gli alleati più potenti, a cominciare da Stati Uniti e Gran Bretagna.

La politica estera dello statista pugliese, allora, può essere identificata come una proiezione della sua formazione culturale improntata al personalismo maritainiano, per il quale, al centro di qualsiasi costruzione sociale, quindi anche dello Stato, in quanto tale e in quanto in rapporti con altri Stati, c’è la naturale relazionalità umana, che è immagine del Dio trinitario.

La politica estera, dunque, con le costruzioni sovranazionali, con i trattati di amicizia, commerciali o le alleanze militari, con i suoi organismi internazionali era, per lui, innanzitutto un terreno di incontro tra popoli e culture. In questa ottica si può parlare di Moro come un costruttore di pace, delle condizioni per la pace. A questa visione di fondo, il leader Dc applicava il metodo del dialogo protratto fino all’estremo, fino a trovare un punto di incontro tra parti, anche distanti tra loro, tale da poter chiudere accordi e giungere a compromessi che riducessero le divergenze.

Se queste erano ispirazione e metodo, le direttrici fondamentali della sua politica estera si possono rinvenire nel posizionamento dell’Italia come mediatore tra est e ovest, e soprattutto tra nord e sud. Africa, Medio Oriente, Mediterraneo erano i quadranti in cui Moro riteneva che l’Italia potesse dispiegare al meglio la sua azione diplomatica e trovare spazi per la costruzione della sua leadership regionale, fermo restando le non modificabili alleanze militari e politiche.

Una funzione di guida che fu effettivamente conquistata con una lunga e paziente azione di costruzione di relazioni cominciata durante il suo primo governo, all’inizio degli anni 60, e proseguita, con maggiore intensità, durante gli anni in cui è stato a capo della Farnesina. Dal ‘69 al ‘74 furono decine i viaggi compiuti nel bacino del Mediterraneo e nell’Africa sub-sahariana tali da rendere il ministro italiano il principale interlocutore del mondo arabo in occidente, fino a farne il primo paladino della nascente causa nazionale palestinese. Questa sua azione diplomatica lo portò a percepire chiaramente, primo tra i leader occidentali, quanto fossero strettamente interconnesse la sicurezza dell’Europa e il dialogo tra nord e sud del Mediterraneo.

Moro per primo si rese conto che solo un rapporto pacifico con il mondo arabo sarebbe stato la condizione per mantenere la sicurezza dell’Europa. Ne era talmente convinto da chiedere con insistenza, fino a ottenerlo, l’inserimento di un paragrafo sul Mediterraneo nell’atto finale della Conferenza di Helsinki.

Quanto resti di tutto questo è difficile da dire. Certo, il fatto che la Farnesina, nei suoi strategic paper sul Mediterraneo, citi Moro, o che il ministero stesso cambi nome diventando “ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale” consacrando in qualche modo le norme volute da Moro e da Mario Pedini, suo sottosegretario, sulla cooperazione internazionale, come dato oserei dire genetico della nostra politica estera, rende manifesto il grande carisma che, in questo ambito, è stato esercitato dal leader democristiano.

Molto lontani invece, appaiono sia la sua autorevolezza, sia l’ispirazione culturale cui si è accennato, sia il metodo. Passare in tre anni dal trattato di amicizia di Bengasi al bombardamento della Libia, non riuscire a garantire all’Eni l’esplorazione della acque di Cipro per l’opposizione di un alleato Nato, la posizione non pervenuta sulla Siria o sulle tensioni in Palestina sono tutti indici di appannamento della leadership dell’Italia come Paese di riferimento dell’area mediterranea, che resta, per ovvie ragioni, di importanza vitale per l’approvvigionamento energetico e come spazio per la cooperazione politica, economica, commerciale e culturale.

 

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