È impossibile distinguere la crisi siriana dal futuro del Medio Oriente, e automaticamente dal futuro del mondo. Fin dall’inizio della guerra civile, la Siria è stato l’alambicco colturale di tutta una serie di fenomeni che hanno avuto ricaduta globale (uno? Le fake news diventate così dilaganti), e dunque val la pena continuare a osservare quel che succede laggiù e appuntarlo in un taccuino mai scarno di informazioni, vicende, movimenti.
Per esempio, ieri il quotidiano russo Izvestia ha scritto che adesso Mosca pensa di bloccare, se non addirittura cancellare, la fornitura di S-300 alla Siria. Gli S-300 sono un sistema missilistico terra-aria di ottima fattura che i russi avevano promesso da un po’ al regime siriano: quando la missione tripartita occidentale ha colpito tre basi siriane dopo un attacco chimico a Douma che ha attirato l’attenzione internazionale, la Russia era tornata a diffondere la notizia della fornitura; era una specie di monito, un messaggio politico che diceva attenzione a colpire la Siria, perché nel sorvolarla proteste finire sul mirino di un S-300.
In realtà era solo un richiamo da caccia: infatti la Russia ha batterie anche più potenti degli S-300 in Siria, però non le ha usate contro i caccia e i missili francesi, inglesi e americani, perché era stata avvisata in precedenza ed era pragmaticamente d’accordo con la rappresaglia contro il suo alleato (questa era una realtà complessa da spiegare ai più basici fan putiniani in giro per il mondo, e allora Mosca ha usato il messaggio racchiuso nei container missilistici per tener alta la faccia).
Ancora: in questi giorni i media iraniani sono piuttosto impegnati in editoriali aspri contro Mosca. Non sono espliciti, ma riprendono considerazioni senza soggetto che attaccano tutti quelli che “non reagiscono” alle operazioni militari con cui Israele sta martellando le postazioni che l’Iran ha creato in Siria. Tecnicamente Iran e Russia sono alleate al fianco di Bashar el Assad, ma sulla Siria hanno obiettivi diversi: se la prima vuole trasformarla in una piattaforma militare anti-israeliana e anti-sunniti, l’altra la vede come un grande obiettivo politico – la stabilizzazione, da far passare al mondo come successo – e strategico da sfruttare.
Questa distinzione di vedute sovrapposta in un solo territorio non è nuova, ma adesso sta diventando una questione più stringente in relazione alla fase della crisi e soprattutto a quello che avviene al di là del Golan. Israele, diviso dalla Siria dalle alture già oggetto di un guerra quarant’anni fa, non tollera più la presenza iraniana, perché la vede quale è – una rampa di lancio per attacchi contro lo stato ebraico – e per questo sta portando avanti una serie di missioni militari con cui limita la formazione dell’infrastruttura pensata da Teheran e costruita attraverso le Quds Force (l’unità d’élite che i pasdaran usano per le attività all’estero, oggetto di varie sanzioni internazionali per questo comportamento clandestino e velenoso, di cui le ultime arrivate ieri da parte degli Stati Uniti).
Il fatto che la Russia non abbia mai usato le proprie difese aeree contro i raid israeliani sulla Siria (che sono iniziati nel gennaio del 2013), sommato al rinvio sulla fornitura degli S-300, e sommato alla particolare intesa che in questo momento c’è tra Mosca e Tel Aviv (il premier israeliano, per esempio, è stato la guess star delle manifestazioni per la Vittoria russa del 9 maggio), sono un altro messaggio politico, che dice chiaramente che i russi non sono troppo a proprio agio con la deriva presa dagli alleati iraniani.
Quella attuale è una fase delicata della crisi che dura da otto anni: per Mosca adesso non si tratta più di combattere in modo spietato i ribelli per riconsegnare la Siria ad Assad, adesso che hanno fatto vincere il rais serve piuttosto di creare la stabilità futura su cui poggiare lo Stato siriano (forse addirittura contemplando la possibilità che in un futuro un po’ più lontano Assad non ci sia nemmeno più). E Teheran non è un attore stabilizzante, mentre la Russia sì (anche se chiaramente cerca una stabilità che segua il proprio interesse).
Continuando con gli appunti su ciò che succede in Siria, a questo punto val la pena di annotare un’uscita americana destinata a piazzarsi sulla stessa traiettoria. Adesso gli americani dicono che il territorio siriano sottratto dai curdi – con l’aiuto statunitense – all’occupazione del Califfato è impensabile che ritorni sotto il controllo di Assad.
Ed è anche questa una linea politica che coinvolge Mosca, Damasco e Teheran. I russi sono gli interlocutori con cui Washington potrebbe trovare una soluzione futura, e sono coloro che potrebbero far ragionare Assad sul Kurdistan siriano (poi ci sarà da trattare con la Turchia); gli iraniani invece sono attualmente i principali nemici americani (Donald Trump ha stracciato il deal internazionale che cercava di normalizzare Teheran), e l’Iran (all’opposto della Russia) è il partner che rende tossico il rais siriano.
Ieri il vice comandante dell’Operazione Inherent Resolve, nome proprio della lotta al Califfo, ha raccontato che le forze curde sono nuovamente finite sotto il fuoco dei miliziani assadisti (i gruppi sciiti mossi dall’Iran) nei pressi di Deir Ezzor. Gli americani hanno risposto al fuoco e distrutto un pezzo d’artiglieria: il Pentagono prima di intervenire ha ricevuto via libera dai russi.
Damasco ha due opzioni davanti: mollare l’Iran, affidarsi alla Russia, e crearsi la possibilità di dialogare in forma indiretta con Stati Uniti e Israele; tenere l’Iran, trasformarsi in un hot spot degli ayatollah, subirne le conseguenze.