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Attentato a Parigi, la tragica normalità del terrore e l’esempio dell’Italia

L’attentato di Parigi del 12 maggio da parte di un ceceno naturalizzato francese rappresenta la tragica normalità di questa epoca. Arrivato in metropolitana nel quartiere dell’Opera, nel cuore di Parigi, il ventunenne Khamzat Azimov ha cominciato ad accoltellare i passanti uccidendone uno e ferendone quattro al grido di Allahu Akbar ed è stato ucciso dai poliziotti. Ormai sappiamo che queste modalità sono le più pericolose perché imprevedibili da quando, nel settembre 2014, il portavoce dell’Isis Abu Muhammad al Adnani (ucciso nel 2016) pronunciò un discorso diventato fondamentale per gli estremisti e per chi si radicalizza sul web dov’è naturalmente reperibile: uccidere gli infedeli con qualunque mezzo a disposizione, che sia coltello, veicolo o pietra.

Il fatto che l’attentatore di Parigi fosse uno degli oltre 19mila schedati in Francia con la lettera “S”, cioè pericoloso per la sicurezza dello Stato, ha riacceso la polemica purtroppo fine a se stessa: in quello sterminato elenco sono compresi anche estremisti di destra e di sinistra ed è impossibile controllarli tutti. Azimov, naturalizzato francese nel 2010, era schedato perché in contatto con il marito di una donna partita per la Siria: dunque era considerato un sospetto jihadista e il suo attentato è stato rivendicato dal Califfato.

Le reazioni italiane seguono copioni già visti: istituzionali i commenti del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e del ministro degli Esteri, Angelino Alfano, di sostegno alla Francia e di invito all’unità contro il terrorismo, più aggressivi quelli del centrodestra. Se Matteo Salvini (Lega) si limita a osservare che “il nemico dei nostri figli è il terrorismo islamico”, Giorgia Meloni (FdI) auspica “tolleranza zero ed espulsione immediata per tutti i potenziali estremisti islamici” e Maurizio Gasparri (FI) va oltre, sollecitando leggi speciali “indispensabili a livello europeo e internazionale” e ricordando che il terrorismo degli anni Settanta e Ottanta fu battuto “varando anche leggi speciali”.

È opportuno ricordare alcune cose. Rispetto alla richiesta di espulsioni avanzata da Giorgia Meloni, l’11 maggio il ministero dell’Interno ha effettuato l’espulsione numero 42 di quest’anno, che equivale alla numero 279 dal gennaio 2015: gli investigatori stanno dando una ripulita all’Italia cacciando tutti coloro che sono potenzialmente pericolosi prima che commettano reati gravi. Nel frattempo, la prevenzione continua al massimo livello: il 10 maggio è stata resa nota un’operazione di Polizia e Guardia di Finanza coordinata dalla Dna, la sesta operazione antiterrorismo in cinque settimane, che ha smantellato due cellule qaediste. Dunque, grazie alle indagini e alle nuove norme varate nel 2015, in Italia le cose vanno meglio che altrove. Ma va detto che le espulsioni sono possibili perché non si tratta di cittadini italiani.

Sull’opportunità di leggi speciali il discorso si fa scivoloso. Negli anni di piombo ci furono la legge Reale del 1975 e la legge Cossiga del 1980, ma l’attuale ordinamento giudiziario sembra consentire ogni intervento necessario per combattere il terrorismo islamico né pare possibile un accordo a livello europeo quando c’è un abisso tra gli ordinamenti e tra le modalità (e le qualità) investigative dei vari Paesi membri. La forza di una democrazia sta nel non abusare di leggi speciali: il franco-ceceno di Parigi è uno dei tantissimi lupi solitari, esaltati, radicalizzati sul web che rappresentano il pericolo della “prevedibilità zero”. Spiegando alla stampa l’ultima operazione, Claudio Galzerano, direttore del Servizio per il contrasto del terrorismo esterno della Polizia, disse che “sono tra noi e sta a noi fermarli”. In Italia li trovano, altrove meno.



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