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Basta errori, costituzionalizziamo la crisi

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Questa volta è vietato sbagliare, se vogliamo riprendere per i capelli una crisi che rischia di essere devastante, non solo per il nostro Paese. Da questo epicentro l’onda d’urto si è diffusa contagiando l’intera Europa e le stesse sponde dell’Atlantico. Se l’Amministrazione americana sente l’obbligo di intervenire pubblicamente per tranquillizzare i mercati, dopo la caduta del Dow Jones (-1,58 per cento) e parlare dell’Italia, qualcosa deve pur significare. L’eventuale default della sesta potenza industriale, non può essere senza conseguenze. Non è la piccola Atene che combatte contro Sparta e che in quella lotta può anche soccombere.

Pochi hanno evidenziato un dato che desta allarme. Gli spread sono aumentati, seppure in misura diversa, non solo in Italia. Crescono in Spagna, anch’essa coinvolta in una crisi politica dagli esiti incerti. E quindi ci si può stare. Ma aumentano anche in Francia, come pure in Portogallo per il pericolo di un eventuale contagio. Ma lo stesso bund tedesco non ne è immune. In un mese si era passati da 50 punti base a meno di 20. Negli ultimi giorni è risalito ad oltre 30. Insomma: tutta la struttura dei tassi è in movimento verso l’alto. Tendenza che rischia di determinare più di un problema per la Bce. Finora la sintonia con i mercati è stata molto ampia. Segno evidente che il quantitative easing andava nella giusta direzione. Ma se i mercati chiedono un rendimento maggiore per il rischio, la Bce non può continuare a far finta di nulla. Si spiegano allora le voci all’interno del suo stesso board che cominciano ad ipotizzare un fine precoce di quell’esperimento. Non più a fine anno, ma con l’inizio dell’estate. Per l’Italia sarebbe benzina sul fuoco, in grado di incendiare la foresta.

Non fare errori, significa costituzionalizzare la crisi. Basta con i conciliabili nelle segrete stanze. Con i rovesciamenti di fronti. Di Maio che grida alla messa in stato d’accura del Presidente Mattarella e poi, pentito, porge la mano. Mentre il pater familiae di Di Battista invita alla sedizione, evocando la Bastiglia. Tutto questo deve finire. Che Carlo Cottarelli sciolga, quanto prima, le riserva e vada in Parlamento. Quella è l’unica sede in cui si può dirimere il conflitto. Non otterrà la fiducia? Bene. Nessun automatismo impone lo scioglimento delle Camere. Il Presidente della Repubblica prenderà atto della situazione e nuovamente inizierà le consultazioni per decidere il da farsi.

Nel dibattitto che accompagnerà il voto di fiducia, tuttavia i diversi gruppi parlamentari dovranno uscire allo scoperto. E dire cosa vogliono fare di questo martoriato Paese. Prospetteranno le possibili soluzioni alternative. Diranno di essere pronti per un nuovo incarico di governo? È possibile. Ma dovranno anche dire per fare cosa. Vogliono uscire dall’euro? È legittimo da un punto di vista politico. Ma devono dirlo pubblicamente ed assumersene la relativa responsabilità. Quello che non vogliamo più vedere è l’indicazione di un programma che nasconde nelle pieghe questa prospettiva, senza esplicitarla. Si possono prevedere spese per centinaia di miliardi, senza minimamente accennare alle coperture finanziarie ed ai tempi di realizzazione dello stesso? Un conto è dire “domani la flat tax”. Altro indicarlo come un obiettivo dell’intera legislatura. Introducendo un meccanismo graduale che consenta la progressiva riduzione del carico fiscale, sulla scorta delle risorse che l’ipotetica maggiore crescita renderà possibile.

Stesso discorso per il salario di cittadinanza. Al di là delle obiezioni di principio, tutt’altro che peregrine, anche in questo caso esiste un problema di risorse che si somma ai ventilati propositi di reintrodurre, modificando la Legge Fornero, le pensioni d’anzianità. Quel meccanismo che negli anni passati ha portato la spesa previdenziale italiana verso livelli sempre meno sostenibili. Il quadro di lungo periodo della spesa pensionistica, dato il progressivo invecchiamento della popolazione e la bassa crescita dell’economia, è già a rischio. Si basa su presupposti che molti giudicano fin troppo ottimistici. C’è poi un’incognita nella relativa equazione che ne rende fragile la sottostante architettura politica. L’equilibrio di lungo periodo dovrebbe essere assicurato, anche, da un flusso di immigrazione pari ad oltre cento mila nuovi ingressi all’anno. Come questo si concili con l’ipotesi di “tolleranza zero” verso gli immigrati è tutto da dimostrare. Si possono attuare i respingimenti integrali, ma allora bisogna trovare nuove risorse, tenendo conto che l’eventuale maggior tasso di crescita dell’economia non è una cornucopia dalla quale attingere a piene mani. Vi sono limiti fisici di cui occorre tener conto.

Resta, infine, il nodo dei problemi. Quale ministro per l’economia? È chiaro che il titolare di Via XX Settembre deve garantire innanzitutto la tenuta dei conti pubblici. La battuta che, a quanto sembra, sia circolata durante i conciliaboli nella stesura del “programma di governo del cambiamento” – se il Ragioniere dello stato dovesse obiettare, basta cambiarlo – è rivelatrice di un clima. Certo il Presidente della repubblica, può sempre rinviare alle Camere provvedimenti sprovvisti di copertura. Ma l’eventuale successivo voto delle stesse, grazie ad una maggioranza blindata, renderebbe inutile la procedura. Un percorso di guerra, come si vede. Se fosse così, meglio allora tornare alle urne. E rimettere nelle mani del popolo italiano il suo destino.


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