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Vi spiego perché l’innovazione va governata e i robot non temuti. Parola di Cuzzilla

Di Stefano Cuzzilla

È il digitale a costituire il vettore di accelerazione del cambiamento.  La negazione, l’attendismo, la non-azione, in questo caso determinano la scomparsa dell’impresa. Il processo di innovazione che investe produzioni e prodotti non è reversibile. L’anno scorso durante la nostra Assemblea discutevamo se i robot e le macchine avrebbero distrutto posti di lavoro. Oggi sappiamo che questo esito è parte di un processo più complesso, che merita l’impegno di tutti per creare nuove opportunità di lavoro qualificato. La verità è che bisogna puntare su competenze qualificate e su manager capaci di governare l’innovazione. All’avvento dei robot si reagisce investendo nella qualità del lavoro di tutti, che è la sfida più grande che abbiamo dinnanzi.

Nel 1990, è stato notato, le 3 maggiori aziende produttrici di auto di Detroit da sole avevano un giro di affari di 250 miliardi di dollari, una capitalizzazione di mercato di 36 miliardi e contavano 1,2 milioni di addetti. Già nel 2014 le prime 3 imprese della Silicon Valley avevano stessi volumi di affari ma una capitalizzazione superiore ai mille miliardi e soltanto 137mila dipendenti.

Se sono saltati i nessi tra volumi di produzione, andamento in Borsa e numero di occupati, questo per noi non è il futuro dell’industria.  La Quarta rivoluzione industriale non è un’esperienza neutrale. Deve essere governata.  Pertanto, manager, imprenditori e istituzioni hanno una responsabilità precisa sul modello d’impresa che risulterà vincente nei prossimi anni. A farsi strada è piuttosto una struttura della produzione molto più selettiva, molto più interconnessa, molto più virtuale che fisica.  La vecchia immagine del distretto industriale è sostituita dall’intreccio di reti di conoscenza, ricerca e sviluppo, produzione e vendita che hanno il fulcro nei territori.

Il recupero della dimensione territoriale può costituire una grande occasione per il nostro Paese. Lo sta dimostrando la catena di valore che il Made in Italy sta producendo e che traina l’export. In questo senso consideriamo una opportunità da non perdere la costituzione degli hub digitali dell’innovazione e il raccordo tra mondo dell’impresa e mondo della conoscenza che era alla base del progetto dei competence center varato dal precedente governo e che, con grande rammarico, non vediamo decollare. In questi ecosistemi il management svolge il ruolo di collante. Può agevolare la messa a sistema dell’innovazione, determinando un effetto positivo anche in termini di occupabilità.

L’occupazione italiana sta registrando un trend positivo. Ne sono complici alcuni indicatori macroeconomici, a partire dalla tenuta del Pil che in tutti i Paesi industrializzati è tornato a crescere, il contenimento del prezzo del greggio, che oggi sta ricominciando a impennarsi, e alcuni interventi della Bce che hanno agito da scudo. Provvedimenti, come la detassazione sulle nuove assunzioni, hanno spinto le imprese a dotarsi di capitale umano. Ma sono provvedimenti spot; mentre noi chiediamo misure strutturali. Infatti, l’aumento dell’occupazione non ha incluso i giovani, che sono drammaticamente tagliati fuori e che sono strumentalmente contrapposti alle generazioni precedenti. La tenuta sociale, invece, ha bisogno che sia ristabilito con forza il patto tra padri e figli.

Manca del tutto un vero piano sul Lavoro 4.0. Questo intervento doveva partire contemporaneamente all’investimento nei macchinari: mentre Impresa 4.0 ha ridato fiato all’industria, sulle competenze abbiamo accumulato un ritardo colpevole. Il mismatch tra domanda e offerta di competenze si sta aggravando con il paradosso che le imprese che stanno tentando il salto di innovazione non trovano le figure adatte ad accompagnarlo.Abbiamo raggiunto un equilibrio basso. Un equilibrio basso, come è stato giustamente osservato, che stride con la nostra vocazione di grande Paese industriale.

All’aumento dell’occupazione non è seguita una più alta redditività del lavoro. Più di 13 milioni di adulti hanno competenze di basso livello. Siamo sotto la media Ue per diffusione di competenze digitali. Il 35% dei lavoratori è impiegato in un settore non correlato ai propri studi. L’innovazione, insomma, sta polarizzando le professioni. E da noi questo è particolarmente accentuato. È fondamentale che il nuovo governo trovi le risorse pubbliche per intervenire a colmare i gap di competenze digitali che incidono sulla competitività del nostro sistema.

 Federmanager è già corsa al riparo mettendo in atto un piano di riconversione delle competenze manageriali che agisce lato formazione grazie al supporto di fondi propri e risorse della bilateralità. In soli due anni siamo pronti a immettere sul mercato 300 manager certificati nelle competenze fondamentali per le imprese che intendono agganciare la ripresa: manager dell’innovazione, manager specializzati nell’export, manager di rete e figure esperte in temporary management.

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