I grandi fondi di investimento internazionali, come era facile prevedere, hanno preso campo. Appena fuori dalla crisi epocale che li ha colpiti, tornano – se mai avessero smesso – a “investire” nel sistema bancario italiano. Il dato emerge sempre più chiaro dopo le assemblee annuali svolte fin qui ed è riscontrabile sia relativamente alle banche maggiori sia a quelle di medie dimensioni. L’uscita dalla crisi disvela, così, il carattere “costituente” della crisi stessa che, in ambito bancario, si realizza con uno spostamento dell’asse strategico sempre più evidente a favore della grande finanza internazionale. Il fenomeno non è affatto nuovo ma va, via via, intensificandosi proprio grazie alla fine della crisi che ne rende i contorni più nitidi.
Le fondazioni e i soci storici delle banche italiane cedono il passo ai grandi investitori istituzionali stranieri che diventano gli azionisti che pesano e peseranno in futuro. I fondi possano, così, controllare le decisioni arrivando, in molti casi, ad avere o a condizionare le maggioranze nelle assemblee e a imporre quelle che, dal loro punto di vista, sono le più giuste scelte strategiche.
Il fenomeno è senz’altro sintomatico da un lato dell’uscita della crisi dello stesso sistema finanziario dall’altro del fatto che le banche tornano ad essere appetibili perché in grado di garantire utili considerevoli. Ma può, questo, essere considerato un fenomeno positivo per l’economia italiana? Come è del tutto ovvio i fondi provano a svolgere, nel migliore modo possibile, quello che è “il loro mestiere”: generare e consolidare, nel più breve tempo possibile, la maggiore redditività. Non rientra, certo, tra gli scopi istituzionali dei fondi affrontare e valutare altre problematiche che riguardano il piano economico, quello sociale, occupazionale o ambientale.
L’economia reale, legata alle specificità dei territori, la vita e lo stato di salute delle Piccole e Medie Imprese, rimaste, forse, l’ultimo asse strategico del sistema produttivo italiano, non sono e non potrebbero neanche essere di competenza dei fondi di investimento. Le Pmi, in Italia, generano 1’80% dei posti di lavoro e il 70% del valore aggiunto. Grazie a questa morfologia, l’Italia è, in Europa, il primo Paese per valore aggiunto agricolo, secondo per valore della produzione manifatturiera, ancora secondo per pernottamenti di turisti stranieri. Il sostegno a questa ricchezza economica può mai essere una priorità della finanza internazionale? Evidentemente no. L’Italia è, poi, un Paese che per la propria storia ancora vanta uno tra i più alti tassi di risparmio in Europa. La funzione di tutelare questa ricchezza è affidata al suo sistema bancario e alle banche del territorio che hanno saputo trasformarla, grazie a una reale sinergia con le Pmi, in investimenti nell’economia reale realizzando così gli interessi, contemporaneamente, dei risparmiatori, degli investitori e dei soci delle banche stesse.
Oggi, le scalate dei fondi internazionali dalla natura impersonale con una diversa impostazione strategica e con l’unica finalità della massimizzazione dei profitti, potrebbero mettere seriamente in pericolo questo sistema che proprio nella crisi ha dimostrato di saper resistere come sistema. Sembra però che il nostro Paese, invece di difendere questa ricchezza, si sia fatto convincere a smontarlo e a metterlo sul mercato lasciando al grande capitale, soprattutto internazionale, la possibilità di intervenire per farlo proprio. Una politica priva di idee, incapace di scelte di prospettiva, dopo avere venduto all’estero settori strategici della propria economia, inerme subisce ora l’ennesima incursione in settori imprenditoriali, come quello bancario, che essendo vivi e vegeti fanno gola a molti. L’Italia diventa così preda dei grandi fondi che diventano veri conquistatori.
Prima di raggiungere il punto di non ritorno sarebbe auspicabile una presa di coscienza della direzione nella quale si sta andando con questa “non politica” di svendita e, soprattutto, delle inevitabili conseguenze sul piano economico, sociale e occupazionale. La crisi economica dalla quale stiamo uscendo ha – è sempre utile ricordarlo – le sue origini proprio nello spostamento degli investimenti dall’economia reale alla finanza. La lezione avrebbe dovuto insegnare qualcosa.