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Il governo Conte e l’eclissi del centrodestra

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Finalmente la crisi di governo, aperta con le elezioni del 4 marzo, sta avendo il suo epilogo. Le due forze politiche che hanno preso più voti alle urne e che rappresentano con maggior vigore il megafono eterogeneo degli italiani, Lega e 5 Stelle, sono le energie democratiche della nova maggioranza. Fin qui tutto bene.

In definitiva ci troviamo oggi dove avremmo dovuto essere due mesi e mezzo fa, se non vi fossero stati veti e oggettive difficoltà nel comporre l’alleanza giallo-verde.

Perché allora la stampa di destra è così tanto ostile a questo esperimento?

Perché Matteo Salvini e Luigi Di Maio sono dovuti ricorrere a Giuseppe Conte per avere un premier?

Perché l’opposizione più dura a questo esecutivo nascente è costituita proprio da Forza Italia e da Fratelli d’Italia, teoricamente ancora alleati di Salvini?

Queste domande non sono inevase ma, anzi, costituiscono di per sé il nodo politico più rilevante della situazione odierna.

Guardando all’iter percorso, il vero fatto significativo è che la Lega, per dar vita a questo governo, ha dovuto abbandonare un punto di forza che ha costituito la fenomenologia iniziale della crisi: l’unità del centrodestra.

È vero, infatti, che la formula adottata è stata, inizialmente, quella di un nulla osta di Silvio Berlusconi, ma è altrettanto vero che, accettando di andare da solo, Salvini ha accolto ugualmente tutto il rischio di deflagrazione che tale opzione reca in sé.

In politica gli imprevisti costituiscono, d’altronde, l’essenza vera che domina tutto.

E il primo inaspettato è stata l’assoluzione di Berlusconi, una liberatoria che ha reso il Cav di nuovo candidabile. Il secondo è stata la difficoltà del negoziato della Lega con Di Maio, dal quale Salvini ha con i denti strappato la soluzione tecnica di Conte, scongiurando l’ipotesi di avere addirittura Di Maio a Palazzo Chigi.

La fine del centrodestra è divenuta così ineluttabile. Adesso, oltre al ruolo subalterno della Lega con i Cinquestelle, si aggiunge pure un premier che è distante mille miglia dalla cultura unitaria del centrodestra.

Oltretutto, cosa per nulla trascurabile, il presidente Sergio Mattarella si trova ad avere in mano un governo con a capo una figura più tecnica di qualsiasi altro tecnico che avrebbe potuto scegliere nel caso di un esecutivo di tregua.

Certamente, resta il contratto a garantire in modo inusuale gli ambiziosi obiettivi giallo-verdi da raggiungere. E, non da ultimo, il potere di nomina che i due partiti azionisti utilizzeranno, e giustamente, a pieno per sostituire la loro dualità a quelle precedenti, Pd-FI, nell’addentellato pubblico.

Il risultato più immediato ed eclatante, oltre allo spappolamento dei Democratici, resta, ciò nondimeno, l’eclissi del centrodestra unito. La coalizione adesso non ha più ragion d’essere, malgrado i punti del contratto e l’agenda di governo prevedano molti obiettivi cari al centrodestra, e contemplati infatti nei relativi dieci punti elettorali della agonizzante triplice alleanza.

La politica, occorre rammentare, si basa sulla dialettica tra potere e contropotere, molto prima e molto di più che sul programma e le convergenze finalistiche.

E in questo momento il governo che sarà, il primo che vede la Lega presente da sola senza Forza Italia e la Destra, non ha una maggioranza di centrodestra. Un fatto, questo, che è indubbiamente una vittoria di Di Maio e di Berlusconi, e una sconfitta di Salvini.

La presenza, in aggiunta, non di un leghista o di un grillino ma di un tecnico alla guida dell’esecutivo costituisce una sostanziale accettazione da parte di entrambi dell’impossibilità oggettiva di stare insieme senza dover affidare ad un avvocato terzo la gestione della coabitazione provvisoriamente neutralizzata. Una intelligente strategia di uscita che rende, tuttavia, paradossalmente impopolare sui media conservatori il più democratico e conservatore governo degli ultimi sette anni.

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