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L’Iran deal non c’è più. E ora Trump minaccia le sanzioni (anche alla Ue)

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Alla fine Donald Trump ha scelto la via severa: lasciando pochi spiragli aperti, ha comunicato al mondo che gli Stati Uniti intendono ritirarsi dall’accordo sul nucleare chiuso con l’Iran nel luglio del 2015, un accordo che “serve solo alla sopravvivenza del regime a cui permette ancora di arricchire uranio”. Washington non si fida.

Il presidente, entro il 12 maggio, doveva ottemperare all’obbligo giuridico trimestrale con cui certificare davanti al Congresso che l’Iran sta rispettando l’accordo, invece ha anticipato i tempi di qualche giorno e parlato questa sera annunciando di aver firmato un memorandum per alzare sanzioni contro l’Iran entro 90 giorni.

Trump, parlando dalla Casa Bianca davanti a microfoni e telecamere, ha spiegato che Washington non crede in Teheran, teme che il congelamento per 15 anni del programma nucleare previsto dal Nuke Deal possa far da ombra ad attività collegate e clandestine, che nel frattempo potranno pure beneficiare della normalizzazione (diplomatica, economica, d’immagine) conseguente.

“Questo è stato un orribile affare unilaterale che non avrebbe mai dovuto essere fatto. Non ha portato calma, non ha portato la pace, e non lo farà mai “, ha detto Trump. “Se ho permesso che questo accordo restasse lì è perché temevo che avrebbe innescato una corsa agli armamenti nucleari in Medio Oriente”.

Per evitare di entrare in rotta di collisione con le Nazioni Unite – la cui agenzia per il nucleare, l’Aiea, sta certificando che gli iraniani stanno rispettando quanto richiesto dal deal – Trump ha utilizzato l’unico criterio soggettivo dei quattro su cui è chiamato dal Nuclear Agreement Review Act (INARA) all’obbligo di certificazione: l’interesse nazionale.

L’annuncio di Trump è stato secco, sebbene ritirarsi dall’accordo non è un passaggio rapido. Ci sono vari dipartimenti (dal Tesoro, al Commercio, all Difesa e ovviamente al dipartimento di Stato) che devono mettere in piedi il contraccolpo della decisione, e per questo tutto sarà definitivamente rimandato a luglio – quando l’amministrazione Trump dovrà confermare un’altra compliance sui dettami del Jcpoa (acronimo del Joint Comprehensive Plan of Action, nome tecnico dell’accordo) e a quel punto potrà reintrodurre altre sanzioni.

Il Jcpoa non è un accordo legale, ma un’intesa di natura politica, dunque ha molti più spazi di manovra di quel che si ritiene. Per questo la mossa di Trump può suonare più come un avvertimento, soprattutto agli alleati cofirmatari (Francia, Regno Unito, Germania, Europa). In effetti, va notato che le sanzioni che Trump dovrebbe re-introdurre (e su cui saranno i legislatori americani a decidere) sono quelle che riguardano terze parti, in particolare istituti bancari che finanzieranno affari con realtà iraniane.

Questo genere di sanzioni, dunque, potrebbero servire a riallineare verso Washington le mosse in avanti fatte dagli europei (per esempio, i tentativi di business della francese Total o dell’italiana Eni), creando nel frattempo spazio di manovra diplomatica. In pista c’è già il francese Emmanuel Macron, che ha già detto che sfrutterà la sua empatia con Trump per cercare punti di contatto per una soluzione (missione però già fallita durante la visita di stato di due settimane fa, quando l’americano lo avvisò in anteprima della decisione). L’Eliseo ha fatto sapere che discuterà le conseguenze dell’annuncio di Trump con Londra e Berlino.

Trump ha attaccato l’Iran: gli Stati Uniti denunciano i test missilistici compiuti nei mesi scorsi – su armi che teoricamente sarebbero state proibite a Teheran fino al 2023 da una sanzione Onu – e l’influenza velenosa giocata in Medio Oriente attraverso i gruppi proxy armati (come i libanesi di Hezbollah, per esempio, che mentre hanno ricevuto un rafforzamento politico interno con le ultime elezioni, dall’Iran ricevono armi con cui potrebbero riaprire il conflitto con Israele).

Per Trump, al di là del rispetto tecnico del deal, manca la volontà iraniana di mostrarsi un attore affidabile: e questo – sommato all’anti-americanismo che segna i passi della linea radicale della teocrazia che comanda la Repubblica islamica – è per il presidente il motivo per cui l’accordo va rivisto.

Molto dipenderà anche dall’Iran. Tecnicamente l’accordo potrebbe restare in piedi anche senza americani – mantenuto dai paesi europei, ma anche da Russia e Cina – e a quel punto Teheran dovrà decidere se riterrà conveniente o meno tenere fede alle richieste previste dal Jcpoa. Gli iraniani hanno già detto che se Washington uscirà si riterranno a mani libere, ma potrebbero essere state dichiarazioni di facciata.

Certo, va detto che dal lato economico, i benefici potrebbero diminuire notevolmente, visto che potenzialmente le banche e le multinazionali europee potrebbero sentirsi minacciate a chiudere business con controparti iraniane, col rischio di finire sulle liste nere delle sanzioni extra-territoriali americane.

 

 

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