Nelle prime ore della mattina di giovedì, l’esercito israeliano ha sferrato un’offensiva poderosa contro la Siria. Ha sparato dalle alture del Golan e ha colpito – secondo le parole del ministro della Difesa, Avigdor Lieberman – “quasi tutte” le infrastrutture utilizzate dagli iraniani su quella fetta delicata di territorio siriano. Mettere insieme nella stessa frase “offensiva”, Israele, Siria, Golan, Iran, fa correre la mente indietro al 1973, al guerra del Kippur, eppure si tratta della mera cronaca di una circostanza che in questo momento porta a galla, agli occhi di tutti, una realtà che si trascina da diversi anni.
L’intervento con cui l’Iran ha fornito carne da cannone per mantenere al potere Bashar al Assad è servito per rafforzare la Repubblica islamica nella regione mediorientale: ora la Siria è un protettorato iraniano (e russo), che gli ayatollah considerano piattaforma militare contro Israele (e Arabia Saudita) da utilizzare per future operazioni e per futura deterrenza – da ricordare: l’accordo che congela il programma nucleare durerà 15 anni, poi l’Iran avrà mani più o meno libere.
I raid israeliani in Siria sono iniziati più di cinque anni fa, sempre clandestini e attiravano le attenzione solo degli osservatori, ma ormai seguono una cadenza quasi quotidiana, perché Tel Aviv sta seguendo un aumento del carico di armi che gli iraniani stanno portando nel paese di Assad e da lì distribuendo alle loro forze proxy, come Hezbollah, o posizionando nei loro avamposti.
Per esempio, due giorni fa, un deposito vicino Damasco è saltato improvvisamente in aria in piena notte: si trattava di un magazzino di missili iraniani, e non è bruciato come il bus Atac di Roma, ma perché centrato da una attacco aereo, quasi certamente israeliano che ha centrato due veicoli parcheggiati all’interno (il target dà la misura di quanto sia specifica ormai l’attenzione e la conoscenza israeliana di quel che accade in Siria).
Di solito lo Stato ebraico non commenta queste operazioni, che vengono inquadrate come azioni per preservare la sicurezza nazionale, anche per questo quello che è avvenuto nelle ultime ore prende un valore leggermente diverso. Per alcune ragioni.
Idf, le forze di sicurezza israeliane, Tsahal in ebraico (Israele è uno dei pochi paesi che chiama le sue forze armate con un nome proprio, indice di quanto il concetto di sicurezza sia insito nel sistema di pensiero dei suoi cittadini), hanno diffuso una dichiarazione, dei commento e poi postato su Twitter video dell’attacco.
Overnight, IDF fighter jets struck dozens of military targets belonging to the Iranian Quds forces in Syrian territory pic.twitter.com/LwBJTMkxYR
— IDF (@IDFSpokesperson) 10 maggio 2018
Lo hanno fatto innanzitutto perché hanno detto di aver agito per via difensiva. Nella notte, infatti, dalla linea siriana del Golan erano piovuti una ventina di missili contro il territorio israeliano: tutti intercettati dallo scudo missilistico Iron Dome (“Nessuno è stato ferito. Niente è stato danneggiato. Dobbiamo essere grati per questo” ha detto Lieberman riferendosi al sistema di difesa; dichiarazione da mettere sempre nell’ottica del rapporto israeliano con le forze armate).
Quei missili dalla Siria, secondo le intelligence di Tel Aviv erano stati lanciati per ordine diretta dell’Iran, che al fianco di Damasco ha schierato sia forze clandestine (come le milizia sciite, dozzine di gruppi di cui Hezbollah è capofila, tutte ideologicamente anti-occidentali e anti-sionistiche), che gruppi scelti dei Guardiani. Si tratta per esempio delle Quds Force, la Forza Gerusalemme, l’unità d’élite della componente confessionale dell’esercito, khomenista, e direttamente dipendente dalla Guida Suprema, Ali Khamenei, che gli ha affidato le operazioni extraterritoriali iraniane.
I Quds sarebbero coloro che hanno ordinato di sparare i missili dalla Siria verso Israele, dice Idf: sono guidati da un generale che nelle aree sciite del Medio Oriente è venerato come un super eroe, Qassem Soleimani, fautore della strategia con cui Teheran ha diffuso influenza nella regione attraverso gruppi politici armati, addestrati dalle Quds, finanziati dalla ricchissima teocrazia iraniana, completamente assoggettati alla linea khomeinista di Teheran.
Una delle parti di quella visione di Soleimani è riempire la Siria di missili e proiettili d’artiglieria: si chiama strategia della saturazione ed è il modo d’attacco con cui gli iraniani intendono, se necessario, saturare (appunto) lo spazio aereo israeliano per rendere impossibile all’Iron Dome di abbattere tutti i missili in cielo.
Stime dicono che sono dozzine di migliaia i missili che l’Iran ha passato a Hezbollah, che tecnicamente è ancora in guerra aperta con Israele dal 2006 (un conflitto che molto ruotò attorno al lancio di razzi dal Libano). Ora quegli armamenti sono più sofisticati, e gli israeliani stanno da un lustro bloccando le consegne con raid aerei, ma sanno perfettamente di aver colpito solo un’aliquota.
Un’altra ragione per cui Israele potrebbe aver parlato liberamente dell’attacco in Siria contro l’Iran è che poche ore prima dell’azione il premier Benjamin Netanyahu era in Russia, a festeggiare la liberazione e la nuova incoronazione di Vladimir Putin. Ci sono stati contatti diretti tra i due e colloqui riservati tra delegazioni, ed è possibile che Mosca abbia rinnovato il via libera non ufficiale alle operazioni di Tel Aviv.
Da quando la Russia è entrata in massa nel conflitto siriano, nel settembre del 2015, ha sempre garantito a Tel Aviv la possibilità di continuare a procedere su quelle linee di sicurezza nazionale, ed escluso qualche sfuriata pubblica necessaria per ragioni di immagine, Mosca non ha mai fatto niente per evitare le azioni israeliane. I russi controllano lo spazio aereo siriano, eppure non hanno mai colpito caccia i caccia israeliani che lo hanno penetrato per bombardare le basi di Assad o gli alleati iraniani.
È un accordo tacito: per la Russia, oltre che mantenere i buoni rapporti con Israele, c’è anche il beneficio di limitare l’Iran per via indiretta. Mosca infatti non ama il corso settario, ideologico, aggressivo e regionale che Teheran ha dato al conflitto (anche a questo si lega l’intero intervento).
Infine gli israeliani potrebbero essersi sentiti sicuri di procedere all’interno di questo clima anti-iraniano che si è creato da quando Donald Trump s’è insediato alla Casa Bianca e si è ancora di più esacerbato negli ultimi giorni, con l’annuncio dell’uscita statunitense dall’accordo sul nucleare.
La sicurezza con cui gli israeliani si muovono sulla situazione anti-iraniana in Siria è uscita allo scoperto qualche giorno fa, quando il ministro dell’Energia (già capo del dicastero dell’Intelligence) si è addirittura permesso di dire a titolo personale durante un’intervista che, qualora dovesse continuare a fornire spazio di azioni all’Iran, il rais siriano Assad potrebbe anche essere eliminato da Israele. Si tratterebbe di un’escalation clamorosa; sulla stessa killing list potrebbe essere inserito anche Soleimani, col rischio di creare reazioni incontrollabili dell’Iran.
Quello stesso ministro israeliano, aveva anche annunciato che l’incontro tra Netanyahu e Putin sarebbe stato un bene per la situazione, perché – dice – sono i russi i soli che possono fermare l’Iran, e convincere Assad a togliere spazio agli Ayatollah.