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Visti da oltreoceano. L’Italia è ormai il cattivo esempio della deriva populista

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“Osservate cosa sta succedendo a Roma, perché potrebbe essere il futuro dell’America”. Questo il monito lanciato dal Washington Post con un editoriale di Anne Applebaum che mette a fuoco la deriva populista in Italia. Non si parla di geopolitica, ma di sociologia. L’interminabile guerra all’establishment dei populisti italiani non è una meteora né frutto di un allineamento astrale, ma un male congenito alla società italiana. E i subbugli nei palazzi romani dicono molto, se non tutto, di quel che può succedere negli States quando terminerà il primo mandato di Donald Trump. Non ci sarà un ritorno allo status quo, alla dicotomia repubblicani-democratici, alle posizioni ideologiche e ai valori che da due secoli tracciano la linea rossa che divide l’elefantino dall’asinello. Nessuna quiete dopo la tempesta: “la politica nazionale diventerà un mosaico di gruppi mono-tematici incompatibili e in competizione l’uno con l’altro, che formano alleanze temporal; è probabile che l’irresponsabilità e l’irrazionalità venga votata, non rigettata dale persone”.

Come spesso accade l’Italia, scrive il WaPo, è in anticipo sui tempi. Da quasi trent’anni il vecchio sistema politico è stato disintegrato per non tornare più. Le prime, letali picconate sono giunte dalle toghe di Tangentopoli negli anni ’90, nel mezzo di una “enorme rivoluzione antielitaria” che ha spalancato le porte all’era di Silvio Berlusconi. Il Cavaliere ha promesso tanto, ma ha mantenuto poco e niente, continua il quotidiano statunitense, che traccia un ritratto impietoso del leader forzista: un uomo che “ha un modo di offendere simile a Trump e un’assenza di interesse verso qualsiasi cosa che assomigli a una vera riforma, come gli uomini forti dell’America Latina”.

L’approdo di un tecnico come Mario Monti a Palazzo Chigi nel 2011 serviva per fare marcia indietro, e invece ha aggravato la situazione. A dispetto delle apparenze, il governo di centrosinistra di Matteo Renzi ha adottato la regola aurea di un movimento populista: trovare un soggetto esterno cui addossare qualsiasi colpa. Almeno a parole, l’ex premier “ha cercato di incolpare l’Unione Europea per i problemi locali dell’Italia”. E così, di legislatura in legislatura, ogni volta che il populismo si è fatto establishment ha creato nuovo populismo. “Il fallimento dei populisti in Italia non ha portato il pubblico a sperare nel ritorno dei sobri centristi. Scossi dall’ondata di promesse infrante, gli elettori non hanno rivolto lo sguardo ai realisti onesti che dicono loro le dure verità e sono in grado di fare scelte difficili”. È successo l’esatto contrario, scrive l’Applebaum: “come in molti Paesi latinoamericani in passato, il fallimento del populismo ha portato a un disgusto ancora maggiore delle élites, che siano reali o immaginarie”.

Ora all’ombra di Palazzo Chigi, pronti a prendere in mano il timone, ci sono Lega e Cinque Stelle. Due forze politiche arrivate al traguardo con un volto trasfigurato rispetto alla linea di partenza. Il Carroccio, nato nel mito della secessione del Nord, è oggi “un partito di estrema destra, che usa un linguaggio aggressivo verso gli immigrati” sentenzia la firma del Washington Post ricorrendo a stereotipi fin troppo inflazionati nei grandi quotidiani americani. Il Movimento invece, che agli albori era poco più che “un’operazione sui social media”, oggi  si presenta come un partito che “ha adottato politiche di sinistra, come il reddito universale e un’alta spesa pubblica”.

Le nozze, qualora si facessero, non avranno vita lunga. I due movimenti sono infatti stretti in una morsa. Se terranno fede al programma, introducendo flat tax e reddito di cittadinanza, “l’Italia andrà incontro a una crisi finanziaria”. L’alternativa è che “il nuovo governo si comporti responsabilmente,  rischiando però di innescare una nuova ondata di emozioni antielitarie e anti-politica, se non qualcosa di peggio”. In ogni caso un populista tirerà l’altro. Che questo serva da esempio per quei democratici negli States convinti che Donald Trump sia l’unico ostacolo per la corsa alla Casa Bianca del 2020.

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