L’ineccepibile lezione di politica che il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha impartito nel breve, ma intenso, discorso di 8 minuti, pronunciato al termine della terza consultazione, non è stata accolta dai principali aspiranti alla guida del governo. Probabilmente nemmeno ascoltata, visto lo sgarbo istituzionale portatogli da un rifiuto delle sue proposte, promulgato in tempo reale; praticamente senza soluzione di continuità con la conclusione dell’intervento del Capo dello Stato. Eppure, meritava, di certo, una più meditata considerazione. Almeno la parte nella quale Mattarella condiziona la vita futura del governo di garanzia alla possibilità di un accordo tra i partiti, anche postumo alla formazione del “suo” esecutivo. Governo definito dallo stesso Mattarella: “neutrale”; tant’è che, a garanzia di ciò, esclude che i suoi componenti si candidino alle prossime elezioni e, comunque, concluderà la sua missione subito dopo la legge di bilancio. Il tutto in cambio di una fiducia altrettanto neutrale quanto il governo annunciato. Ma, tant’è; questi due mesi ci hanno dimostrato l’inadeguatezza istituzionale dei 5 stelle e la grossolanità tattica della Lega. Problemi che dimostrano, entrambi, come sia ben diverso andare a prendere i voti in campagne elettorali esagerate nelle promesse, dal metterli, poi, a frutto nella gestione istituzionale o nella vita di governo. Contraddizione nella quale versano, in questa fase storica, quasi tutte le democrazie occidentali; condannate, a quanto pare, ad assistere, da parte dei partiti, a una carica emozionale da Campionato del mondo e a promesse da Bengodi, in campagna elettorale; per poi rapidamente afflosciarsi e “tradire” gli elettori (sta succedendo anche a Macron) o, quando non avviene – come nel caso di Trump – a fare danni.
In questo scenario, nel quale i due vincitori si sono inventati, invocando il voto immediato, un rischioso ballottaggio di fatto, il Partito democratico sembra fare la parte del famoso vaso di coccio. Condizione che, si legge, tormenta il suo gruppo dirigente. È comprensibile la preoccupazione, risultato anche del sostanziale immobilismo che lo ha caratterizzato dalla elezione delle cariche istituzionali alla gestione della crisi. Ma sarebbe clamoroso che, per quanto ancora scosso dalla recente sconfitta – sulla quale troppo poco si è riflettuto -, il secondo partito italiano non cogliesse la condizione politica di trasformare l’indubbio rischio di un voto accelerato in un’opportunità!
Perché ciò avvenga l’Assemblea del 19 maggio deve dare pochi, ma precisi, segnali di svolta.
Primo: dare prova sincera che si vuole evitare il voto subito. Da un lato, trasformando la convinta adesione alla proposta di Mattarella del governo di tregua, in una grande mobilitazione nei territori per parlare coi cittadini; per condividere, con loro, le ragioni di questa posizione. Dall’altro, praticare, al tempo stesso, lo spiraglio lasciato aperto dal Presidente di un’intesa politica anche in corso d’opera, riattivando il confronto con gli altri partiti, a cominciare dai 5stelle. L’esito negativo è praticamente scontato, ma è necessario dare un segno, fino in fondo, di responsabilità, rendendo ancora più esplicito il loro bluff. Al tempo stesso, proponendo modifiche, anche minime, alla legge elettorale; meglio di tutto sarebbe il ballottaggio, in alternativa un premio di maggioranza alla coalizione.
Secondo: lanciare, sia a tal fine sia in previsione del voto, una piattaforma di contenuti. Cinque, non cento! Semplici contenitori di idee da articolare. L’Europa (gli Stati Uniti d’Europa come irrinunciabile obiettivo strategico. In quest’ottica sono possibili le critiche anche aspre a “questa” Europa); il sud (come il luogo prioritario per affrontare le disuguaglianze e creare il lavoro); il nord (la centralità dell’impresa attraverso una robusta semplificazione fiscale e la sperimentazione di un vero federalismo); i giovani, gli anziani e la famiglia, assunti come i soggetti di politiche differenziate e specifiche; la sicurezza come risorsa e la accoglienza come necessità.
Terzo: lavorare subito per dar vita ad un’unica lista che unifichi la coalizione di centrosinistra che si è presentata al voto del 4 marzo, per fare in prospettiva un partito unico: la frantumazione, si è visto, non dà valore aggiunto. Al tempo stesso riaprire il dialogo a sinistra con Leu (ecc.), ridando fiato al tentativo fatto allora da Fassino.
Quarto: decidere che Gentiloni diventa il candidato premier ed eleggere un segretario. Non ci sono ragioni politiche per non confermare Martina.
Quinto: definire i criteri della formazione delle liste, decidendo anche, senza ambiguità, quanto potere hanno le strutture regionali e territoriali del Partito, e con quali forme democratiche lo esercitano, nel decidere – non solo proporre! – i candidati.
Se il Partito democratico farà queste scelte, che non fece tre mesi fa, il voto prossimo venturo può invertire quella che sembra una tendenza a scendere (probabile se non si cambia). Non per vincere le elezioni, ma tra il 18% e una visibile percentuale superiore al 20, c’è una bella differenza. Sia per la gestione dei prossimi appuntamenti sia per la prospettiva del riformismo italiano.