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Mattarella e Papa Francesco. Il ruolo dei cattolici al tempo del populismo

Un vescovo che conosce bene il Presidente Mattarella passeggiando per la Roma che poche ore fa sperava che Mattarella desse il via libera al governo osservava: “Sbagliano, ha visto suo fratello ucciso, non è il tipo che teme”. Poi il governo politico che doveva avere un tecnico a Palazzo Chigi, un tecnico al Tesoro e un tecnico alla Farnesina non è nato, e alcuni chiedono l’impeachment del Presidente.

Un argine abbastanza evidente cerca di porlo la Chiesa , con la solidarietà al Presidente Sergio Mattarella. Basta leggere la cronaca allarmata dell’Osservatore Romano: cronaca secca, senza commenti, ma per due terzi racconta la scelta di Mattarella. Più chiara ovviamente la Cei; chi ha detto meglio di tutti è il segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, per il quale i momenti di tensione si superano non intensificandola, perché altrimenti “si rischia che a pagare il prezzo più alto sia quel popolo in nome del quale tanti parlano”.

È proprio così. Ma non soltanto per lo spread e le ricadute del suo innalzamento, ma per la frattura sociale che questo introduce. Fratture tra un mitologico popolo, che dovrebbe includere tutti, e le mitologiche élite, che, cui purtroppo ognuno nel racconto o nel privato dà però un nome di popoli, di Stati, o di persone, magari di vicini di casa. È questo che mette a repentaglio una visione popolare che la Chiesa non può tralasciare.

Ecco però che quella che vediamo delinearsi in Italia è una battaglia globale, tra un’Europa che se non cambia muore, e un sovranismo populista che se vince non lo fa su un programma, ma interpretando un malessere ogni giorno più profondo, e che ha bisogno di esprimersi, e il modo più semplice è trovando un nemico, un colpevole. È questi che la Chiesa, e in particolare il cattolicesimo democratico figlio di Sturzo e poi capace di esprimere Aldo Moro, respingono come pericoloso. Non lo possono accettare perché, pur con sensibilità diverse, sanno che la resistenza istituzionale di Mattarella non riguarda solo l’Italia, ma riguarda una disponibilità al dialogo che se non ci fosse avrebbe ricadute dall’altra parte del tavolo, per esempio in Germania come in altri Paesi europei.

L’Europa dei padri non c’è, si sfarina ogni giorno di più, ma non è la rassegnazione una parola caratteristica della dottrina sociale della Chiesa. Tutto questo ovviamente ha addentellati che vanno al di là dell’Italia da una parte e dall’altra del muro. Il destino di Mattarella non è il destino di un presidente cattolico, ma dell’idea di farsi guidare dal dialogo, del rispettarsi, tra popoli che si combattevano 70 anni fa, non così tanti poi. Quindi in quel destino c’è il destino di quegli interlocutori politici internazionali disposti a dare qualcosa se in cambio qualcosa riceveranno.

Difficile farlo sentendosi dire di perseguire i vecchi disegni nazisti, o di rappresentare la cultura dello scrocco. Tutto si tiene nell’epoca della globalizzazione e dei poteri sovranazionali e così il cattolicesimo democratico diviene nazionale e sovranazionale. I politici che chiudevano la campagna elettorale dopo i riti con l’ampolla ora espongono il rosario: sembra “Dio, patria, famiglia”.

Destra e sinistra saranno categorie superate, ma il centro rimane una bussola comportamentale per chi non accetta davvero che si dimentichino le periferie, che si soffi sulla paura dello straniero, che si indichi in popoli amici gli affamatori del nostro.
Per questo Mattarella da ieri per la Chiesa è effige di un’altra resistenza, quella del dialogo, dell’incontro, della non prevaricazione, della disponibilità a servire il bene comune nazionale con la responsabilità sofferta di chi sa che anche altrove occorrono segnali di disponibilità per essere responsabili. Tornare a sentire il linguaggio dell’oggi parla di crisi antropologica, di clima che può portare alla guerra. La forza del dialogo dunque richiede audacia, richiede coraggio, richiede di usare di meno la parola “popolo” e di più quella “servizio”.

C’è una visione di Dio che emerge in questo scontro al calor bianco che non può che interrogarci e chiedere ai leader culturali della secolarizzazione e a tutti i vescovi di fermarsi almeno loro a riflettere. Nel Veneto bianco o nella Sicilia democristiana questa antica cultura cattolica c’è ancora? Andare a testa bassa contro la Chiesa ha aperto nuove solidarietà umane o ha aperto una faglia che ha prodotto una Chiesa chiusa, irrigidita, conformista, severa? Il prezzo non rischia di essere salato per entrambi? L’Italia che si riscopre al centro delle attenzioni mondiali saprà meritarsele o correrà il rischio di finire dietro alle sirene di chi specula per il tornaconto che avrà nel rompere il vaso europeo? I leader della secolarizzazione senza se e senza ma non sentono nostalgia di quei vescovi che ogni giorno in città o in campagna avrebbero parlato di solidarietà, morbidezza, non conformismo, misericordia? E loro, i vescovi, si chiederanno quanto la religione sia diventata cultura in parrocchie che respingono o ospitano fedeli che pensano a stare in regola con i bollini ma non con l’anima? E i leader di ogni partito, credenti o non credenti, non si chiederanno da quali squilibri noti ma non affrontati derivi tutta questa rabbia?

Ognuno ha di che riflettere, ma tutti sanno che la misericordia non equivale a dare un bacino a San Gennaro in campagna elettorale, ma a rendersi conto che la cultura del servizio non solo è gravosa, ma comporta anche dei rischi, soprattutto in un’epoca di disorientamento. È questo a mio avviso testimonia Mattarella per la Chiesa e per il cattolicesimo democratico in particolare modo. Servire è il nome della politica tradito dall’epoca dello scandalo del Banco di Roma di giolittiana memoria, e la rabbia ora ha superato livelli di guardia.

È facile per chi ha soffiato sulla secessione catalana soffiare anche sul fuoco della crisi italiana, ingolosito dall’idea di fare di Roma la capitale del nuovo identitarismo spaccone, descamisado. Una volta, dopo la pesante sconfitta elettorale patita dalla sua Dc, Ciriaco De Mita disse a un trionfante Umberto Bossi durante un dibattito televisivo: “vedi Umberto, non esistono soluzioni facili per problemi complessi”. È vero, ma in televisione non bucò allora come probabilmente non bucherebbe oggi.

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