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Missili palestinesi contro Israele: il quadro mediorientale in cui l’Europa è incastrata

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Martedì mattina dalla Striscia di Gaza sono stati lanciati oltre 20 missili contro la fascia meridionale israeliana, la zona del Neghev. Il ministro della Difesa, Avigdor Lieberman, ha confermato le notizie diffuse inizialmente dalla radio militare, dicendo che si è trattato di 27 missili, la gran parte intercettati dal sistema di difesa aerea Iron Dome, mentre alcuni sono caduti al suolo senza fare danni – uno è finito nel giardino di un asilo, dove per fortuna ancora non erano ancora arrivati i bambini.

L’attacco è stato condotto da un gruppo politico-jihadista combattente, il Jihad Palestinese, ed è stato approvato da Hamas, altra organizzazione simile che amministra la Striscia dal 2007 (entrambe sono considerate entità terroristiche da Stati Uniti e Unione europea). Si è trattato della risposta alle azioni militari condotte nei giorni passati dall’esercito israeliano a Khan Yunis, operazioni contro postazioni di Hamas in cui erano state uccise due persone, mentre domenica scorsa un altro bombardamento aveva colpito il Jihad Palestinese, che aveva promesso vendetta.

Si tratta di attacchi che seguono le dinamiche scatenate dall’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme, quando le proteste palestinesi erano sfociate in violenza, con i manifestanti colpiti dai cecchini israeliani (110 i morti, centinaia di feriti), e ancora più in generale dal corso attuale della storia mediorientale. Gli scontri al confine delle Striscia sono “una nuova normalità”, ha scritto Tel Lev Ram sul Maariv.

La situazione tra Israele e Hamas sta tornando piuttosto tesa, anche perché i militanti della Striscia sono fomentati dall’Iran – con cui, da sempre, hanno collegamenti (nonostante siano di confessione opposta, sunniti i primi, sciiti i secondi). Si tratta di un link con cui Teheran sfrutta i palestinesi come forza proxy contro Tel Aviv. Per esempio, al culmine delle proteste di due settimane fa, il 14 maggio, giorno dell’inaugurazione dell’ambasciata americana (motivo d’attualità dietro le tensioni), il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zairf, scriveva su Twitter che Israele “uccide a sangue freddo” i palestinesi – si riferiva ai colpi dei cecchini contro i manifestanti – “massacrati mentre protestavano nella più grande prigione a cielo aperto del mondo” – intendendo invece la Striscia di Gaza.

Il servizio segreto interno israeliano, lo Shin Bet, ha fatto sapere a inizio maggio di aver raccolto le prove di come l’Iran stia finanziando Hamas: non è una novità, informazioni del genere sono state fatte uscire più volte in passato, però in questo momento è il quadro che conta. Perché l’arrivo dei soldi per il gruppo della Striscia si somma all’approvvigionamento di armi che gli iraniani stanno fornendo al gruppo libanese Hezbollah, sfruttando il caos siriano.

E dunque, Israele potrebbe finire in una sorta di accerchiamento, al nord i libanesi – che non si sentono più solo un proxy iraniano, ma hanno la pretesa di essere considerati alleati strategici di Teheran – e a ovest i gruppi armati palestinesi. Da tempo i servizi segreti di Tel Aviv fanno circolare uno scenario inquietante: l’Iran, dicono, sta rifornendo di armi i gruppi attorno a Israele (soprattutto Hezbollah) perché così poi questi potranno attaccarlo seguendo quella che viene definita la strategia della saturazione, ossia lanciare tantissimi missili contemporaneamente in modo da mandare in tilt i radar del sistema di intercettazione israeliano. Così quei missili potrebbero essere mortiferi.

Il quadro, allora: da una parte c’è l’Iran, che starebbe finanziando i gruppi anti-israeliani, dall’altra appunto Israele, ma non solo. Poi c’è un allineamento: l’Arabia Saudita sta da tempo aumentando il livello di confronto con gli iraniani, soprattutto sul fronte yemenita, dove il concetto di guerra proxy è quasi superato. I sauditi combattono con forze regolari e considerano i ribelli Houthi alla loro stregua, collegati all’Iran. Inoltre Riad sta lavorando serratamente per contenere l’espansionismo iraniano: un avventurismo che passa da attività politiche in Iraq, l’aiuto ai guerriglieri in Yemen, il sostegno al regime siriano, i finanziamenti ai gruppi palestinesi.

È questo il quadro, questo l’allineamento: il Paese protettore dei luoghi sacri dell’Islam, l’Arabia Saudita, con lo Stato ebraico, in una quasi alleanza inedita per una guerra al rallentatore contro la Repubblica islamica sciita. Poi ci sono gli Stati Uniti, che con l’avvicinamento ai partner mediorientali (israeliani e sauditi), e con la postura anti-iraniana, hanno permesso quell’allineamento (tale al punto che i sauditi hanno preso una posizione non troppo pronunciata sui fatti delle scorse settimane lungo il confine della Striscia).

In mezzo l’Europa, che ha rapporti con Israele e Arabia Saudita, un’amicizia strategica con gli Stati Uniti, e un accordo da salvare con l’Iran. Una posizione scomoda quella di Bruxelles, che sa che Teheran sta diffondendo un germe velenoso in Medio Oriente, ma vuol cercare di tenere in piedi il dialogo – leggasi l’accordo sul nucleare da cui Washington è uscita, che come lo chiama Berlino è “un’oasi di cooperazione” – per evitare che la situazione precipiti.



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