In presenza di difficili passaggi politici è normale che si cerchino, nella memoria, analogie con qualche vicenda del nostro passato che ci aiuti a trovare una via di uscita. I collaboratori del presidente Sergio Mattarella sono stati impegnati a ricercare, nella storia della nostra giovane Repubblica, qualche precedente nelle numerose crisi di governo che potesse gettare una luce nel buio del presente. Ciò per aiutare il presidente a una interpretazione dei limiti e degli spazi dei suoi poteri in presenza di un voto politico che non aveva indicato un vincitore e una definita maggioranza e non apparendo utile alle forze politiche e all’opinione pubblica ricorrere immediatamente a nuove elezioni. Fino a questo momento, il ricordo delle analogie si è indirizzato agli anni che seguirono la conclusione di quel lungo arco di tempo delle coalizioni di governo tra partiti, anche con programmi e interessi elettorali non coincidenti, ma tenuti coesi da una condivisa strategia politica di costruzione delle alleanze internazionali e della difesa della democrazia liberale. Siamo alla metà degli anni Settanta e centrale fu la figura e l’azione di Aldo Moro, che, vedi caso, è stata recentemente rievocata a quarant’anni della sua tragica fine, che non ha ancora trovato convincenti risposte sia sul perché e sul come del rapimento, sulla motivazione della intransigenza dello Stato e sulla gestione della sua eredità politica.
La presa di posizione dell’allora presidente della Democrazia cristiana sulla fine delle coalizioni democratiche registrava non solo l’esaurirsi di una solida convergenza dei partiti su un comune obiettivo e collocamento strategico dell’Italia nell’area atlantica, ma anche di un profondo cambiamento della società, di una straordinaria trasformazione della scienza, della tecnica, dell’economia e della cultura del nostro Paese. Già sul finire degli anni Sessanta, Moro aveva concentrato la sua attenzione sulla lettura di questi cambiamenti e aveva tratto alcune conclusioni sulle sfide e sul modo di affrontarle. In modo semplicistico, si è parlato della terza fase di Moro concentrandosi sulla opzione del compromesso storico, cioè di una coalizione tra la Democrazia cristiana e il Partito comunista. Tre erano le questioni che Moro mise nell’agenda politica di quegli anni. In primo luogo, il rapporto tra Stato e società, tra l’esercizio del potere politico e il bisogno di autonomia del pluralismo della società e della contestazione al monopolio della politicità da parte di un ceto autoreferenziale.
Moro scrisse sui cambiamenti alla politica e in particolare alle iniziative del suo partito, indotti dalla rivoluzione culturale: innanzitutto cogliendo il senso profondo della rivoluzione culturale del ‘68, la “fantasia” al potere. Ci furono sorrisi, ma Moro aveva colto nel segno. Non era una novità se i critici si fossero ricordati, ad esempio, di quanto aveva scritto un economista matematico neoclassico, Alfred Marshall, che elaborò, con grande lucidità, una teoria dinamica ed evoluzionista dello sviluppo. In secondo luogo, Moro intravedeva la necessità di avere una adeguata flessibilità per non rimanere spiazzati rispetto alle sfide nuove. In una lettera dalla prigionia diretta a Zaccagnini, Moro ricordava al suo allievo come la Dc “nella sua sensibilità ha il pregio di indovinare come muoversi nelle situazioni più difficili”. Basti pensare come, nei passaggi decisivi della sua storia, la Dc abbia sempre guardato in positivo a come affrontare il cambiamento. Pensiamo, ad esempio, alle proposte di De Gasperi nel Congresso del 1954 che, dopo il fallimento della legge truffa, aprirono a una nuova fase politica; egli era consapevole dei cambiamenti della società italiana prodotti proprio dall’azione riformatrice dei suoi governi. Riandiamo all’idea di un governo delle convergenze parallele, quando non c’era più spazio per coalizioni centriste e occorreva coinvolgere nel cambiamento le energie dei lavoratori, espressione anche della tradizione socialista. E quel governo Fanfani, dell’inizio degli anni Sessanta, fu il governo con maggiore tasso riformista della storia repubblicana.
E infine, in terzo luogo, Moro riteneva determinante avere sempre una visione strategica e una capacità di risposte di medio termine ai cambiamenti della cultura, dell’economia e della società. La necessità era di non lasciarsi mai prendere dalle emergenze, ma guardare sempre oltre la siepe. A pochi giorni dal rapimento, Moro si rivolgeva ai parlamentari della Dc e, dopo aver ammonito i colleghi sul dato che il futuro rischiava di non essere più nelle nostre mani, li invitava a guardare all’emergere di nuove energie, di nuovi modi di fare politica e di nuovi equilibri sociali e politici. E, rispetto a queste novità, a non rimanere fermi a contemplare quello che avevamo fatto, ma a guardare il modo con cui il partito era in grado di coinvolgere i nuovi ceti dirigenti. Questi insegnamenti sono essenziali per far fronte allo snodo della vita civile e politica del nostro Paese.