I morti e i feriti tra i palestinesi sono già oggetto di analisi che formulano accuse di strage, violenza indiscriminata o sproporzionata e addirittura di genocidio, associando gli scontri con lo spostamento dell’Ambasciata americana a Gerusalemme. Le violenze al confine di Gaza sono un’ulteriore occasione per creare una crisi diplomatica da cui Turchia e Hamas hanno di che guadagnare. Gli Stati Uniti e i Paesi arabi non si presteranno al gioco, ma quale sarà la politica dell’Europa?
Il giornale palestinese Al Hayat Al Jadida pubblica una lunga serie di “reazioni internazionali al massacro ad opera dell’occupazione contro i civili inermi a Gaza”. Tra di queste, la prima è la Turchia. Erdogan ha una lunga storia di inimicizia verso Israele, che ha definito già l’anno scorso come “assassino di bambini”, definendolo uno Stato terrorista e accusandolo di genocidio. Altri Stati seguono la via della condanna: Belgio e Irlanda hanno chiamato gli ambasciatori israeliani per chiarimenti. La rappresentante della politica estera europea Mogherini ha sottolineato la necessità di assicurare il diritto di protesta pacifica e ammonito Hamas a non strumentalizzare le proteste per perseguire altri fini.
La Turchia ha allontanato l’ambasciatore israeliano, richiamato il rappresentante in Israele, e ha indetto una sessione straordinaria dell’Organizzazione della Conferenza Islamica. Erdogan lo aveva già fatto nel dicembre 2017, in condanna della dichiarazione di Trump. In un Medio Oriente troppo mite, con un asse arabo-sunnita che guarda con speranza ai cambiamenti della politica di Trump, la Turchia vuole essere il baluardo delle posizioni oltranziste contro lo Stato ebraico. Il quotidiano conservatore Yeni Safak espone una serie di articoli che con un po’ di ironia (USA e Israele sarebbero pronti a mettere le loro bandiere su La Mecca) e molta retorica (si parla di martiri) condannano Israele e gli Stati Uniti per il massacro. Alla seduta straordinaria del parlamento, il vice primo ministro Bekir Bozdag conferma che Gerusalemme è la capitale della Palestina e che gli Stati Uniti sono parte del problema nella regione.
Questa posizione è stata delineata nel discorso di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, in occasione della commemorazione del terrorista libanese Mustafa Badreddine, coinvolto in diverse stragi compreso l’attentato al Primo ministro Hariri. Dopo aver accusato Israele di aver attaccato ingiustamente la Siria, Nasrallah accusa i Paesi del Golfo e l’Arabia Saudita per il loro filo-americanismo, elogiando la “resistenza palestinese” come parte dell’asse che dall’Iran alla Siria e allo Yemen si oppone con la jihad al nemico americano e ai suoi alleati nella regione.
Hamas ha dimostrato di aver saputo orchestrare le manifestazioni. Raggiunto lo scopo di aver causato morti tra i civili e i militanti mandati al confine, Hamas si ritira trionfante dal fronte di Gaza, lasciando che le rivolte continuino nella West Bank. La rabbia della popolazione per le condizioni di vita sempre più precarie è stata dirottata su Israele. I cuori dei palestinesi nella West Bank sono stati galvanizzati da una leadership forte che sa trascinare Israele in scontri che portano solo a condanne anti-israeliane. L’Egitto lascia aperto il valico di Rafiah, accettando anche parte dei feriti che non troverebbero cura negli ospedali sovraffollati di Gaza. Infine, Hamas non cederà alle trattative per la liberazione dei corpi dei soldati e dei prigionieri israeliani che Hamas tiene in ostaggio.
Si poteva evitare? Il 22 febbraio 2018, una delegazione di Hamas e una dell’Autorità Palestinese si incontrano al Cairo per discutere di Gaza e di un eventuale scambio di prigionieri con Israele. Hamas non aveva ceduto alle richieste di Abu Mazen, rischiando di incorrere in altre sanzioni che avrebbero portato la popolazione a un punto di tale disperazione da innescare rivolte anti-regime. Con la pianificazione delle rivolte non solo si è dato alla popolazione un altro motivo di rabbia, ma anche una fonte di sostentamento (pagando i feriti in proporzione alla gravità). La preparazione delle masse di manifestanti è stata minuziosa, con manuali di infiltrazione della barriera al confine, campagne di invasione per il rapimento di israeliani e una campagna mediatica internazionale sul diritto al ritorno. I discorsi infiammanti di Yahiya Sinwar, Ismail Haniyeh e Hamad Fathi il 31 marzo 2018 nei luoghi delle proteste avevano annunciato ogni mossa. I discorsi in Occidente sulla Nakba avevano tentato di offuscare le reali intenzioni di Hamas.
La leadership palestinese vuole eludere le posizioni statunitensi, troppo pragmatiche, rivolgendosi all’Onu, dove le maggioranze anti-israeliane sono automatiche. Un’eventuale inchiesta sull’accaduto finirebbe come in passato: con un mandato molto ristretto che preordina la condanna di Israele, con una decisione di non collaborare da parte di Israele e con un’astratta disquisizione sulla proporzionalità e l’uso della forza. Una possibile denuncia alla Corte Penale Internazionale non sarebbe poi da escludere, soprattutto dopo le notizie date ormai per certe della neonata Laila morta alle manifestazioni e soffocata, sostengono i palestinesi, dal gas lacrimogeno israeliano – notizia non verificata che cementa la convinzione che siano stati compiuti crimini internazionali.
Ebbene l’Europa è in una posizione speciale perché può esercitare una forte condizionalità sui molti finanziamenti che confluiscono a Gaza e nella West Bank, gran parte dei quali sono finalizzati a progetti di difesa dei diritti umani e sviluppo di infrastrutture. In questa posizione l’Europa può davvero creare le condizioni per una pace giusta e duratura. Una chiara condanna dell’uso della popolazione civile per i fini politici di Hamas potrebbe esser un primo passo. Impedire che le piattaforme internazionali vengano utilizzate per una politica anti-israeliana sarebbe di grande aiuto per un processo di pace in stallo ormai da troppi anni. Infine, la forzata connessione tra gli scontri e lo spostamento dell’ambasciata statunitense, che serve solo a neutralizzare il ruolo di mediazione degli Stati Uniti, dovrebbe essere ricusata per garantire un futuro di stabilità alla regione.
La rappresentante statunitense Nikki Haley all’Onu ha detto che gli Stati Uniti sono a favore di una discussione sulle violenze in Medio Oriente, fintantoché tale discussione sia bilanciata e abbia in analisi il quadro completo. Lo farà anche l’Europa?