Il modo tempestoso in cui si arriva a questa assemblea nazionale del Pd è sintomatico delle contraddizioni che sta vivendo il partito dal voto del 4 marzo in poi. Con un segretario che si è dimesso, ma in realtà continua a controllare con pugno di ferro il partito, potendo contare sulla fedeltà della maggioranza dei parlamentari eletti. Con un reggente che vorrebbe diventare segretario per portare con mano più salda il partito al congresso. E con una minoranza che si è rafforzata, ma ancora non abbastanza. Per la prima volta dalla sua ascesa al vertice del partito, però, la leadership e il potere di Matteo Renzi viene sfidato apertamente e messo in discussione. E in caso di sconfitta dell’ex segretario, a quel punto potrebbe davvero paventarsi il rischio di una scissione, con l’ex sindaco che potrebbe dar vita a un nuovo movimento in stile Emmanuel Macron e gli altri a ricostituire un partito di sinistra, a quel punto riaprendo le porte agli scissionisti.
La situazione, in pratica, è la seguente. Renzi vorrebbe andare al congresso ma non subito, entro l’anno, anticipato dalle primarie, con la situazione attuale, che vede Maurizio Martina reggente e Matteo Orfini presidente del partito. Martina, invece, appoggiato dalla minoranza di Andrea Orlando e Gianni Cuperlo, in asse questa volta pure con Dario Franceschini, ma pure da Paolo Gentiloni e Francesco Boccia, vuole essere eletto segretario, così da portare il Pd al congresso ma con un ruolo più forte, con un potere reale che gli permetta di fare delle scelte. Renzi, però, è contrario. Quindi si rischia la conta. Tra i mille delegati, la maggioranza dovrebbe essere per l’ex premier, ma i suoi numeri nelle ultime settimane si sono molto assottigliati e il rischio per lui è altissimo. Tanto che l’ex sindaco di Firenze nelle ultime ore ha offerto una tregua: non dividiamoci, io rinuncio al mio intervento dal palco dell’assemblea e lasciamo così le cose fino al congresso. Oppure ora discutiamo senza dividerci e convochiamo una nuova assemblea dopo i ballottaggi delle comunali di giugno. Il motivo è quello di non rafforzare l’immagine di un partito diviso che pensa solo al proprio ombelico e agli scontri interni invece di occuparsi dei problemi del Paese, proprio nelle ore in cui sta per nascere il governo Salvini-Di Maio. Il motivo, però, è anche un altro: dato che Renzi non può più contare su numeri forti, la conta potrebbe danneggiare soprattutto lui e il suo gruppo di potere. Il rischio è quello di uscirne sconfitto o comunque molto indebolito. Quindi meglio evitare.
Gli altri, però, non ci stanno. Orlando e Cuperlo non vogliono più stare nel limbo e chiedono l’elezione di un vero segretario che possa portare il Pd a congresso con pieni poteri. Come del resto era stato deciso subito dopo le dimissioni di Renzi dopo la sconfitta elettorale. A ribaltare la situazione rispetto al passato è la svolta di Franceschini, che questa volta ha deciso di stare dalla parte della minoranza, contro l’ex segretario. E l’ex esponente della Margherita in assemblea può vantare buoni numeri. Insomma, questa volta le truppe di Dario hanno deciso di sfidare Renzi e di appoggiare i suoi avversari. Ma in queste settimane si sono avvicinati al reggente anche altri esponenti di peso, come Gentiloni, Marco Minniti, Marianna Madia, Anna Finocchiaro, Marina Sereni. Dall’altra ci sono i fedelissimi renziani Guerini, Marcucci, Delrio, Boschi, Lotti, Richetti, Ermini, ecc.
Difficile dire cosa accadrà: se si andrà alla conta oppure se si troverà un nuovo compromesso, rimandando la sfida a tempi migliori. Quel che però è certo è che i nodi nel Pd stanno venendo al pettine. Ma se tutto ciò porterà a un vero e profondo esame dei motivi che hanno portato alla sconfitta del 4 marzo, questo travaglio potrà essere positivo. Le ultime news in arrivo dall’Ergife, hotel romano dove si svolge l’assemblea, dicono che il tentativo di tregua proposto da Piero Fassino è fallito. Renzi parlerà dal palco, sfidando la minoranza, mentre gli esponenti vicini a Martina hanno raccolto le firme per una mozione in cui si chiede l’elezione di un segretario direttamente in assemblea. Insomma, siamo al redde rationem.