Alle nove di mattina ora di Washington (primo pomeriggio italiano), il neo-segretario di stato americano, Mike Pompeo, terrà il suo primo vero e proprio discorso programmatico: parlando dal palco della conservatrice Heritage Foundation, annuncerà il nuovo percorso diplomatico dell’amministrazione Trump su un tema specifico. L’Iran.
Lo speech assume un valore globale (così come vuole il presidente, a cui piace che venga data massima attenzione alle decisioni americane) e non solo perché vedremo come il falco congressista Tea Party del Kansas saprà muoversi nel delicato equilibrio della diplomazia della più forte nazione del mondo – operazione che richiede chirurgia semantica, forse anche superiore a quella a cui s’è dovuto rapidamente abituare durante il suo primo incarico trumpiano, la direzione della Cia.
L’interesse dello speech sta nei risvolti internazionali: si tratta della messa in pubblico della posizione che la Casa Bianca ha programmato dopo l’uscita dal Jcpoa, acronimo inglese dell’accordo sul nucleare iraniano, siglato nel 2015 per congelare il programma atomico degli ayatollah, considerato da Donald Trump il “peggior di tutti i tempi” e colpito col tentativo di affondarlo con l’uscita americana dal sistema multilaterale che lo aveva chiuso (nella precedente amministrazione) e ne garantiva la bontà nell’attuazione.
Che il discorso è importante si capisce già dalla quantità di anticipazioni uscite sui media americani (di solito sono divise in due tipi queste spifferate: quelle di chi ha piacere di parlare con i giornalisti in anteprima; quelle che, ben veicolate dall’interno, arrivano ai giornalisti in anticipo in modo da poterci costruire pezzi e creare l’adeguata attenzione mediatica. In questo caso ce n’è stato un terzo: i trailer diffusi direttamente dal dipartimento).
“L’Iran ha marciato sul Medio Oriente durante il Jcpoa e […] lo ha fatto con i soldi dell’Occidente […] ma questo non succederà più”, uno stralcio significativo del discorso. Pompeo parla dell’aumento di influenza con cui l’Iran sta avvelenando la regione mediorientale, finanziando gruppi politici armati che penetrato il potere all’interno dei vari stati, e lo scalano fino a influenzarne gli andamenti (un esempio: gli Hezbollah libanesi, protagonisti della tenuta del regime siriano; oppure in Iraq, dove Hadi al Amiri, leader dell’organizzazione politica paramilitare Badr, ha ottenuto un ottimo risultato alle elezioni guidando una coalizione di partiti filo-iraniani).
Non solo: quando Pompeo dice che Teheran ha portato avanti il suo piano con i soldi occidentali critica il deal che ha permesso lo sblocco graduale di diversi miliardi delle sanzioni che da anni stanno gravando sull’Iran: a quello sblocco è corrisposto l’interessamento al mercato iraniano da parte di diverse aziende, soprattutto europee.
Con “soldi occidentali” Pompeo intende soprattutto quelli dell’Ue, dunque. Tra Stati Uniti e alleati europei c’è un momento delicato anche, e soprattutto, per le questioni collegate all’Iran. L’accordo sul nucleare fu infatti co-firmato da Francia e Regno Unito, più la Germania (e Russia e Cina), e supervisionato dall’Europa. Ora, Parigi, Londra e Berlino vogliono mantenerlo in piedi, e come loro Mosca e Pechino: e questo carattere azimutale di posizioni crea tensioni tra alleati transatlantici e spostamento e spazi di infiltrazione per cinesi e russi.
Per esempio: il presidente francese Emmanuel Macron sarà una delle star ospitati al Forum economico di San Pietroburgo, dove incontrerà il presidente russo Vladimir Putin. La tedesca Angela Merkel negli stessi giorni volerà a Pechino, dove vedrà il presidente Xi Jinping, dopo che venerdì della scorsa settimana era stata ospite di Putin. È un formicaio diplomatico dove i colloqui ruotano tutti attorno all’uscita trumpiana dal deal e al come muoversi per il dopo.
Sostanzialmente gli europei, e i cinesi e i russi, vorrebbero creare un sistema tale da essere al sicuro dalle sanzioni che Washington tornerà ad alzare contro chi fa business con l’Iran; invece gli americani vorrebbero che almeno gli amici dell’Ue si muovessero con Teheran in coordinazione, come stanno facendo i partner mediorientali (ma si sa che sauditi e israeliani hanno interessi diversi contro la Repubblica islamica) o quelli asiatici.
L’amministrazione Trump scommette che prima o poi anche gli europei cederanno, perché tra fare affari con l’Iran e mantenere i rapporti aperti con la più grande economia del mondo – e pilastro strategico dell’alleanza difensiva – non c’è paragone (tra l’altro: il primo giugno scadranno i termini con cui confermare l’esclusione dell’Ue da dazi su importazioni di acciaio o allumino). E il ritiro di aziende come Total, Maersk, Allianz, dal mercato degli ayatollah è già un segnale. Però Bruxelles sembra che stia cercando di usare la leva del deal iraniano per recuperare indipendenza da Washington – che di certo gode dell’interdipendenza.
Probabile anche un “piano B” che può suonare così: l’Europa la Cina e la Russia restano nel deal, gli Stati Uniti scelgono di mantenere la postura dura contro l’Iran e riattivano le sanzioni, ma danno garanzie di esclusione su eventuali misure secondarie contro le aziende europee (che così potranno limitatamente restare operative e non subire ripercussioni su altri lavori che coinvolgono gli americani), in cambio Washington ottiene dall’Ue garanzie su collaborazioni anti-Iran che riguardano altri dossier.
Per esempio il programma di missili balistici, vietato da una vecchia risoluzione Onu che sembra che l’Iran stia ignorando; oppure quelle attività di influenza regionale. “Abbiamo bisogno di un nuovo quadro che affronti la totalità delle minacce iraniane”, ha detto ai giornalisti Brian Hook, direttore della pianificazione politica del dipartimento di Stato e curatore dei rapporti con gli europei: “Ciò implica una serie di cose attorno al suo programma nucleare: missili e tecnologia missilistica, il suo sostegno ai terroristi e le sue attività aggressive e violente che alimentano guerre civili in Siria e Yemen”.
Però creare un nuovo accordo su cui dovrebbero collaborare tutti gli attori in campo è complicato. Il punto, tanto politico quanto psicologico, è: come può l’Iran fidarsi di nuovo degli Stati Uniti, che hanno dimostrato di tornare indietro e stracciare accordi strategici precedentemente firmati, soprattutto adesso che la linea dei falchi anti-Iran è predominante a Washington? (E l’Europa?).