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Pompeo torna da Kim con la liberazione di tre detenuti americani. E Trump gongola

denuclearizzazione

Dopo una sosta tecnica in Giappone, il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, è atterrato la mattina di oggi, 9 maggio, a Pyongyang col Boeing 757 della US Air Force partito qualche ora prima in gran segreto da Washington. È il secondo viaggio di per il messo dell’amministrazione Trump in Corea del Nord nel giro di pochi mesi, entrambi non pubblicizzati prima della partenza.

Pompeo è stato accolto dal ministro degli Esteri del Nord, Ri Su Yong, e da Kim Yong Chol, influente ex membro dell’intelligence sotto sanzioni americane con cui l’americano ha poi tenuto un incontro a porte chiuse al Koryo Hotel (l’attuale segretario americano è stato capo della Cia, e non può sfuggire il simbolismo dietro ai suoi interlocutori).

L’incontro del capo della diplomazia americana con le controparti nordcoreane ha due ragioni ufficiali più una profonda. Innanzitutto è servito a preparare definitivamente il terreno per il prossimo meeting storico che coinvolgerà il satrapo Kim Jong-un, quello col presidente americano Donald Trump.

Poi ha permesso alla Casa Bianca di ottenere un obiettivo minimo che potesse fare da antipasto a quell’incontro: Pompeo infatti sta già tornando negli Stati Uniti con i tre prigionieri americani che secondo Washington erano stati incarcerati ingiustamente dai nordcoreani. Il presidente ha annunciato il rientro in patria dei tre concittadini e ha fatto sapere che sarà ad accoglierli alla Andrews Air Base quando atterreranno (alle 8 di sera, ora italiana).

Dunque alla fine Pyongyang ha ceduto alle richieste di liberazione americane, mostrandosi aperta in vista del bilaterale Trump/Kim – che sempre in base a quanto detto dal Prez è stato fissato in termini di data e giorno durante il viaggio di Pompeo.

La ragione profonda del viaggio del segretario – che tra l’altro esce fortissimo dal doppio incontro con i nordcoreani – è invece da ricercare nella corsa diplomatica che l’ammorbidimento della posizione nordcoreana ha prodotto. Mentre Pompeo era a Pyongyang a riprendersi cordialmente gli ostaggi che qualche tempo prima il regime accusa di crimini pesanti, in questa nuova atmosfera che circonda gli affari della penisola (che fino a pochi mesi fa sembrava il centro della prossima guerra mondiale), a Tokyo per esempio si svolgeva un importante trilaterale tra Cina, Giappone e Corea del Sud.

Poche ore prima, invece, il presidente cinese, Xi Jinping, aveva chiamato a rapporto il satellite Kim: Pechino ha trattato il satrapo con distacco durante le fasi più acide del confronto retorico armato dei mesi passati (il susseguirsi dei test missilistici, i movimenti militari americani nell’area), quasi stanca dal peso che la protezione offerta al Nord stava facendo gravare su di sé; poi, da quando Kim ha intrapreso una via negoziale, aperta e apparentemente pacifica, Xi ha incontrato due volte il dittatore tornato apparentemente amico.

C’è una competizione diplomatica in cui i vari attori in campo vogliono anticiparsi per intestarsi la soluzione della crisi. Basta seguire gli eventi. Per primo ha iniziato il presidente sudcoreano Moon Jae-inn, invitando la delegazione nordcoreana a vestire la stessa bandiera durante le Olimpiadi invernali di febbraio, prendendo di sprovvista l’alleato americano. A quel punto Trump ha giocato l’all-in chiedendo un incontro diretto a Kim. Ma intanto Moon si era portato avanti pianificando un incontro storico intra-coreano. A quel punto la Cina ha provato a mettere il cappello sulla situazione, convocando Kim a Pechino. Siamo a fine marzo, una mesata dopo Moon e Kim si sono visti e si è iniziato a parlare di denuclearizzazione (anche se ci sarà da capire la semantica che le parti vorranno attribuire al termine). A quel punto, davanti a questo nuovo step, Xi ha richiamato Kim per anticipare di nuovo l’altro super-vertice, quello con Trump – che oggi Pompeo ha pianificato in giorno e location.

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