Si fa un gran parlare dell’Europa. Ma siamo sicuri che sappiamo di cosa stiamo parlando? Parlando, anche con persone di buon livello culturale e con responsabilità non di poco conto, ho la sensazione che le idee siano molto confuse.
Il primo mito da sfatare riguarda la Ue come fonte di risorse finanziarie. Il budget Ue è di ca. 160 miliardi di euro l’anno. Il budget della sola Italia è di 800 miliardi. Dei 160 miliardi il 40% è destinato all’agricoltura. Pensare che a Bruxelles ci siano risorse per risolvere i problemi dei 27 stati membri è una pia illusione. I fondi strutturali non sono importanti per l’ammontare delle risorse messe a disposizione quanto per il fatto che, mettendo a disposizione risorse sotto la forma del cofinanziamento, obbligano gli enti nazionali a dotarsi di strumenti di programmazione e gestione professionali. Negli anni ’80 e ’90 la Dg XVI ha svolto un’azione meritoria nell’insegnare alle nostre regioni meridionali che una seria attività di programmazione deve sapersi concentrare su uno o al massimo due obiettivi e non mirare a risolvere i problemi dell’universo mondo, come pure la Dg XVI ha svolto un’azione meritoria nell’insegnarci a dare credibilità ai nostri dibattiti usando degli indicatori. Su questi versanti le Comunidad spagnole sono state molto più ricettive delle Regioni Italiane.
Come pure la Ue non è un soggetto di politica estera. Nel linguaggio di tutti i giorni si usa parlare di Trattato di Maastricht o di Lisbona. Di solito si dimentica che, a partire da Maastricht (passando per Amsterdam e Nizza) i trattati sono sempre due: uno che regolamenta le materie economiche (qui le decisioni vengono prese a maggioranza e lo Stato Membro che non le rispettasse riceve significative sanzioni economiche) ed uno che riguarda la politica estera e di sicurezza (qui le decisioni vengono prese all’unanimità e se uno Stato Membro non dovesse rispettarle non scattano sanzioni). Qui va rammentato che i due Trattati di Lisbona attualmente in vigore, sono stati preceduti dal tentativo del secondo trattato di Roma la cui stesura fu guidata da Giscard d’Estaing. Questa bozza di trattato prevedeva la realizzazione di una reale Politica Estera e di Sicurezza Europea. Questo trattato fu sottoscritto da tutti gli Stati Membri ma la Francia e i Paesi Bassi ne rifiutarono, tramite referendum, la ratifica. Quindi si ritornò alla forma dei due trattati, uno vincolante (quello che regolamenta la materia economica) ed uno che è poco più di un wishful thinking (quello che tratta della Politica Estera e di Sicurezza).
Ma allora questa Ue che cosa è? La costruzione europea alle sue origini fu il prodotto della politica degli Alleati che volevano impedire lo scoppio di una terza guerra mondiale che avrebbe potuto scatenarsi per la lotta per il controllo delle risorse di carbone e ferro lungo il Reno (inequivocabile in questo senso il discorso di Schuman alla firma del Trattato Ceca). Negli anni ’70 su questa labile base la Corte di Giustizia di Lussemburgo (la Corte della Costruzione Europea) sviluppò una forte giurisprudenza mirante ad affermare la penetrazione in tutti gli Stati Membri degli stessi principi, sopra tutto nell’area della libera concorrenza. A questa fase va ricondotta anche la così detta giurisprudenza Simmenthal (C-106/77), che afferma che i funzionari degli Stati Membri, nel caso dovessero trovarsi di fronte ad una norma interna che non sia in linea con il dettame dell’acquis communautaire, devono disapplicare la norma interna e applicare il dettame comunitario.
L’impatto modernizzante sulle pratiche di molti Stati Membri non è da sottovalutare.
Ma la qualità più significativa della Ue si è affermata negli anni ’70 e ’80. Negli anni ’70 emerge un fenomeno non prevedibile dagli alleati vincitori della seconda guerra mondiale: la velocità dello sviluppo scientifico e tecnologico cresce a dismisura al punto che i mercati di Uk, Italia, Germania Occidentale e Francia non sono più in grado di assorbire i costi dello sviluppo di nuovi prodotti e nuovi processi di produzione. Nel 1983, il Ceo della Volvo, Pehr G. Gyllenhammar , prese l’iniziativa di convocare una tavola rotonda (round table) dell’Etuc (European Trade Union Committee) e dell’Unice (Union des Industries de la Communauté européenne, oggi Business Europe), a cui, oltre ai maggiori industriali europei, parteciparono anche i Commissari Ue Ortolì e Davignon. Questa Round Table diffuse nelle élites degli Stati Membri la consapevolezza che si dovesse sviluppare un mercato interno in grado di assorbire i costi dello sviluppo di nuovi prodotti e processi. Fu allora che il concetto di “mercato comune” fu sostituito da quello di “mercato interno”,
La Ue oggi è sostanzialmente un grande, il più grande, mercato interno. È, quindi, un potere di creare standards tecnici relativi a quello che si può commercializzare. Oggi se una autovettura è accreditata in Italia essa può essere commercializzata in tutti i 28 Stati Membri senza bisogno di ulteriori autorizzazioni. Al punto che il Financial Times ha segnalato già da tempo che la Ue attira tutti i principali uffici di lobbying americani (leggi qui).
Per dirla brutalmente: a Bruxelles non ci sono soldi ma c’è il modo di fare soldi. Perché a Bruxelles si decide quali prodotti e con quali caratteristiche possono essere ammessi nel più grande e più ricco mercato del mondo. Quindi, anziché mendicare aiuti, bisogna essere presenti dove si decide la dimensioni delle reti per la pesca delle vongole.