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I buoni pasto, la Pa e l’interesse italiano. Quel che la politica deve sapere

Tanti protagonisti e quasi tutti arrabbiati. È la storia di un pranzo negato, di esercenti imbufaliti per mancati rimborsi e un’azienda italiana costretta a subire ritardi sistemici dei pagamenti da parte della pubblica amministrazione.

Da tempo migliaia di dipendenti ricevono in busta paga buoni pasto che si vedono respingere dalle principali catene di supermercati, da bar e ristoranti. Con tanto di cartello di avviso in evidenza che recita più o meno così: “Non si accettano i ticket per cause indipendenti dalla nostra società. Ci scusiamo per il disagio”.

Segnaliamo in particolare il caso di Qui! Group (investitore pubblicitario di questa testata, ndr). Si tratta del primo gruppo a capitale italiano che opera nel settore dei titoli di servizio per il welfare aziendale (buoni pasto, voucher, premi aziendali), con quartier generale a Genova e basi operative in Italia, Brasile e Stati Uniti, un fatturato lo scorso anno di 500 milioni e oltre mille dipendenti. Il mercato dei buoni pasto nel nostro Paese è concentrato in quattro player più rilevanti. Ben tre sono di nazionalità francese e solo sull’impresa presieduta da Gregorio Fogliani sventola la bandiera tricolore.

Torniamo ai ticket respinti. Gli esercenti lamentano i tempi di pagamento, troppo penalizzanti. L’inghippo c’è ma la storia, come spesso accade, è più complessa e vale la pena raccontarla tutta.

I dipendenti pubblici sono una fetta rilevantissima del mercato. La pubblica amministrazione affida, attraverso gare d’appalto Consip, la gestione dei buoni-pasto alle società emettitrici ed esige da loro, secondo il nuovo codice degli appalti, un pagamento lampo agli esercenti a 1-2-5 giorni dalla presentazione della fattura. Pena, l’applicazione di risoluzioni e penali molto onerose per gli inadempienti. Se poi, come il caso di Qui! Group, circa 2/3 del tuo fatturato gravita sulla pubblica amministrazione, ecco che questa riduzione dei tempi di pagamento può risultare fatale. Per una semplice ragione: se da una parte i tempi si riducono, dall’altra si dilatano.

Gli ultimi dati forniti dal ministero dell’Economia sui tempi di pagamento delle imprese italiane da parte delle Stazioni Appaltanti mostrano che oltre 43 miliardi di euro non sono stati ancora versati alle imprese. Ciò equivale a dire che la società in questione deve fungere da “banca” alla Pa anticipando agli esercenti denaro che vedrà quando la stazione appaltante sarà in grado di saldare.

Gli ultimi dati sui tempi di pagamento delle imprese italiane da parte delle stazioni appaltanti mostrano che oltre il 63 per cento non è puntuale nell’onorare le fatture dei fornitori e che quasi tutte le stazioni appaltanti pagano il dovuto ben oltre un mese dopo la scadenza.

Una situazione insostenibile soprattutto per il campione nazionale, che a differenza delle altre società multinazionali, non ha potuto accedere a copiose risorse di gruppo, ma che ha definito un progetto per approvvigionarsi di risorse a medio lungo termine tramite un finanziamento strutturato con un primario fondo di investimento.

La società genovese dei buoni pasto ha tenuto inoltre a precisare che solo nelle ultime settimane il gruppo ha rimborsato oltre 126 milioni di euro ai propri esercenti e che continua ad occuparsi di tutte le situazioni in difformità che vengono segnalate, contando di chiudere ogni contenzioso nell’arco di pochi mesi.

Alla politica, e in particolare alla nuova maggioranza, tocca l’onere di dimostrare se lo sbandierato caso Bramini (imprenditore fallito per i ritardi dei pagamenti da parte dello Stato) vuole essere un paradigma che si conferma o che si ribalta. I grandi gruppi stranieri non vedono l’ora di papparsi tutto il mercato “mangiando” gli operatori italiani che, pur eccellenti, devono competere non sul mercato ma contro il loro stesso Paese. Una contraddizione che non può durare ancora a lungo.

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