A quasi 19 mesi di distanza da quando fu avanzata dalla Commissione europea, la proposta di direttiva copryright potrebbe essere arrivata a un punto di svolta. Dopo un lunghissimo dibattito in Parlamento europeo e ripetuti rinvii, la scorsa settimana la commissione giuridica ha votato a Bruxelles un testo che giovedì 5 luglio la plenaria, prevista a Strasburgo, potrebbe decidere di approvare, rimandando poi al cosiddetto “trilogo” con Consiglio e Commissione il raggiungimento di un accordo finale nei mesi successivi.
Un lungo percorso di un testo articolato – che fin da subito ha trovato però in due articoli il principale terreno di scontro – sul quale si sono schierati su fronti avversi le piattaforme Internet e i detentori dei diritti, principalmente l’industria audiovisiva, editoriale e musicale. L’articolo 11 impone alle piattaforme l’obbligo di acquisire i diritti, dunque pagandoli, nel caso utilizzino link a contenuti coperti da proprietà intellettuale. L’articolo 13 sancisce, invece, la responsabilità delle piattaforme nel momento in cui pubblicano contenuti caricati dai propri utenti, spettando dunque a loro controllarne la liceità e il rispetto del diritto d’autore. Circostanza, quest’ultima, che nei giorni scorsi ha fatto parlare il vicepremier e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, di pericolo bavaglio ai danni di Internet. Preoccupazione condivisa anche da una lunga lista di esperti nonché pionieri di Internet, tra i quali Tim Berners-Lee, l’inventore del World Wide Web, che lo scorso 12 giugno hanno scritto al presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, per esternargli le proprie preoccupazioni sulle potenziali ricadute per il futuro della stessa Rete.
Anche perché chi studia gli impatti delle politiche sa perfettamente che l’eterogenesi dei fini è una possibilità più che concreta nel momento in cui un provvedimento entra in vigore. Specie in un campo soggetto a continua innovazione, che per definizione si sviluppa in direzioni scarsamente prevedibili.
Qui gli effetti paradossali e potenzialmente contrari ai fini della stragrande maggioranza dei sostenitori dell’attuale testo potrebbero essere almeno due.
L’articolo 11 della proposta di direttiva, come già sperimentato in Paesi come Germania e Spagna – che a livello nazionale hanno anticipato alcuni strumenti simili a quello proposto su scala europea – potrebbe sottrarre traffico agli stessi editori e ai rispettivi siti di informazione, a cominciare da quelli più piccoli e meno conosciuti. Senza al contempo determinare un effetto significativamente positivo in termini di maggiori vendite cartacee o digitali.
L’articolo 13, di certo non amato dai colossi del web – che tuttavia stanno già investendo somme ingenti in strumenti di filtro dei contenuti – rischierebbe però di penalizzare soprattutto le piattaforme più piccole, meno attrezzate a mettere in campo strumenti efficaci e inevitabilmente costosi (almeno con le tecnologie attuali). Con la conseguenza che ad esserne svantaggiate sarebbero soprattutto le piattaforme nazionali o locali, dunque europee. Anche perché, in base al testo attuale della direttiva, non è chiaro quali piattaforme sarebbero coperte dal provvedimento e quali esentate.
Per queste ragioni, davanti alle tante incertezze sui risultati concreti che seguiranno l’applicazione delle norme – a fronte del fragore che fa da colonna sonora della battaglia, combattuta senza risparmio da entrambi i campi – la parte che prevarrà rischia di strappare una vittoria di Pirro. Se a livello istituzionale si dovrebbe certamente evitare di dire che una direttiva si può recepire o meno (le direttive europee devono essere recepite sempre e comunque, anche se non piacciono, con i margini di flessibilità che vengono dati agli Stati membri), le imprese e le rispettive associazioni che si muovono su campi avversi dovrebbero sforzarsi di dialogare molto più di quanto non facciano attualmente. Individuando possibili terreni comuni, che in realtà sono molti di più di quanto si pensi comunemente. Come hanno capito per primi la Federazione Italiana degli Editori di Giornale (FIEG) e Google, che due anni fa hanno stretto un accordo, un unicum in Europa, per aiutare gli editori nelle sfide che la digitalizzazione impone. Rispetto alle quali, una volta scappati i buoi dalla stalla (i diversi miliardi di ricavi persi, in parte certamente a causa delle nuove possibilità offerte dalla rete) ed escludendo che possano rientrarvi grazie a un codicillo, un colosso di Internet con il know-how di Google ed editori tradizionali che sempre di più devono diventare editori digitali non solo possono ma devono allearsi. In positivo, ad esempio, per consentire alle imprese editoriali di sfruttare le tantissime informazioni che il web permette di acquisire, ma anche in negativo, per reprimere contenuti illegali. Come già accade nel Regno Unito, facendo virtualmente scomparire dai ranking dei motori di ricerca i link a siti che violino il copyright (segnalati dai titolari dei diritti d’autore).
Uno strumento da solo probabilmente più efficace delle norme che si stanno discutendo ora tra Bruxelles e Strasburgo. E soprattutto basato su accordi tra le parti, che il clima da Terza Guerra Mondiale di queste settimane e mesi rischia di rendere più difficili. Condannando molti titolari dei diritti a scenari tutt’altro che rosei. A prescindere da come andrà a finire in Parlamento europeo.