Mettiamola così. L’Italia rischia di finire spolpata delle sue migliori risorse, cervelli e potenzialità. A qualcuno potrà sembrare l’Apocalisse e forse lo è. Soprattutto per chi fa dell’oggettività uno stile di vita. Si legge un numero, magari dell’Ocse, se ne trae una conclusione. E i numeri si sa, sono molto poco relativi.
Oggi l’Ocse, nel suo report dedicato ai movimenti migratori, ha detto una cosa. E cioè che aumentano gli italiani che abbandonano il loro Paese. Tra il 2015 e il 2016 il loro numero è aumentato dell’11%, passando da 102mila e 114mila. Tutto qui? Certo che no. Secondo il rapporto, “l’emigrazione dichiarata è probabilmente molto inferiore a quella reale: l’emigrazione di italiani sarebbe piuttosto compresa fra le 125mila e le 300mila persone”. Confrontando i dati italiani con quelli degli altri Paesi il dado è presto tratto. Ad oggi l’Italia è all’ottavo posto tra i Paesi di origine di nuovi immigrati.
Possibile che un Paese membro del G7, cioè tra i più industrializzati al mondo, dunque con un welfare all’apparenza avanzato, possa dare vita a una simile emorragia umana facendo anche solo lontamanete pensare alle migrazioni del primo 900? Solo che al posto della valigia di cartone c’è l’ipad, ma la sostanza non cambia? Altroché, dice a Formiche.net Domenico De Masi il sociologo (qui una sua recente intervista) che ha svolto tre ricerche per conto del Movimento 5 Stelle. Cioè per chi ora sta al governo, insieme alla Lega.
La verità è, come sempre, nelle cifre e De Masi lo sa fin troppo bene. “L’origine di questo grande flusso in uscita, che considero a tutti gli effetti un’emergenza, ha un nome preciso: prospettiva. In Italia a tre anni dalla laurea solo il 53% dei giovani trova un lavoro stabile. Vuol dire che uno su due rimane a casa con la laurea in tasca. In Germania andiamo ben oltre il 70%. Non c’è da stupirsi se più di qualcuno decide di andarsene da qui”.
Va bene, ma non basta a giustificare i dati Ocse. Migliaia di italiani che ogni anno fanno la valigia sono troppi. E allora? “Allora faccio un altro esempio. In altri Paesi si lavora 35 ore a settimana e si guadagna il 20% in più, cito la Francia su tutti. In Italia invece siamo ancora fermi, dal 1923, alle 40 ore settimanali e si guadagna meno. Non è difficile intuire le ragioni di chi se ne va, o no?”, si chiede De Masi.
Tutto questo porta secondo il sociologo a una specie di burrone sociale. “Uno studente che si laurea in Italia costa allo Stato e alla famiglia che lo mantiene, diverse migliaia di euro. Poi però, quando si rende conto della scarsa prospettiva, se ne va a lavorare in un altro Paese. Questo significa solo una cosa: che finisce col pagare le tasse in un altro Paese oltre a portarvi la sua competenza e così facendo l’Italia non rientra di un centesimo degli ‘sforzi’ fatti per istruirlo. Si capisce da sé che dramma stiamo vivendo”.
Un ragionamento che non fa una piega ma che innesca un’altra domanda. Se siamo arrivati a tutto questo, che senso ha avuto abolire l’articolo 18, la flessibilità nel lavoro, il jobc act e via dicendo? De Masi è tranchant. “Solo palliativi, niente di veramente strutturale. La vera rivoluzione, o almeno un suo inizio, sarebbe ridurre le ore lavorate a settimana, quello sì. Questo dovrebbe fare il governo. Il resto sono mezzucci che non incidono”.
Toccato con mano il dramma dell’immigrazione italiana, che toglie all’Italia qualità e idee, c’è da chiedersi se bisognerà aspettare il prossimo rapporto Ocse per avviare una nuova riflessione. “Se ne parla poco di questa emergenza perché come tutte le cose vergognose hanno poco risalto. Dall’Italia se ne vanno quelli ricchi, chi ha le possibilità, chi ha studiato. Un Paese le G7 che perde pezzi di classi sociali abbienti. Assurdo”.