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La Turchia al voto: Erdogan vuole capitalizzare la riforma presidenziale

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Nell’idea con cui il presidente Recep Tayyp Erdogan ha anticipato le elezioni di un anno, il voto di oggi dovrebbe servire come consolidazione definitiva del suo impero. Un piano partito da circa quindici anni e culminato con il referendum costituzionale di aprile 2017 (vinto con appena il 51,4 per cento) che permette di assegnare al presidente pieni poteri sull’esecutivo (la carica di primo ministro è stata abolita), sulle strutture del governo, sul bilancio.

Ora, con le elezioni, Erdogan intende capitalizzare queste mosse: il voto arriva mentre il paese è ancora sotto lo stato di emergenza collegato al tentato golpe del luglio 2016, che ha portato alla fase finale della polarizzazione interna (con o contro Erdogan) dopo che il presidente ha approfittato della situazione per spingere al massimo il repulisti tra le sacche di opposizione all’interno del potere e in generale muovendosi contro il dissenso. Ora gli uomini di Erdogan controllano tutto: governo, posizioni di spicco nell’amministrazione pubblica, esercito, media.

In comune col voto referendario, le elezioni di oggi hanno il rischio di manomissioni: ieri circolavano su internet gli avvisi di comportamento con cui il principale partito di opposizione, il Partito popolare repubblicano (CHP), chiedeva ai propri rappresentati di tenere gli occhi aperti, non abbandonare i seggi e soprattutto in caso partisse la corrente di notte di posizionarsi sopra alle urne. Dallo scorso marzo la nuova legge elettorale (targata Erdogan) ha permesso la convalida anche delle schede senza timbro, un evidente spazio per chiunque voglia inserire tra i voti schede fasulle.

Il voto è diviso in presidenziale e parlamentare, e rappresenta l’ultima occasione per le visioni laiche (concentrate nelle aree urbane) che si oppongono al processo di islamizzazione nazionalista imposto dall’Akp, il Partito Giustizia e Sviluppo di Erdogan, di fermare quello che la stampa internazionale ormai semplifica come “il Sultano” turco. Se nessuno riuscirà a raggiungere il 50 per cento dei consensi, il secondo turno per eleggere il presidente è previsto per domenica 8 luglio, mentre in parlamento i seggi saranno assegnati a turno unico con metodo proporzionale. E in questo caso non è detto che l’Akp riesca a raggiungere da solo la maggioranza, anche perché quattro partiti d’opposizione, solo per il voto al Meclis (la Grande assemblea nazionale turca), si presentano uniti con una campagna elettorale che sui social network viaggia attraverso l’hashtag “Taman”, basta.

Erdogan ha spiegato che la logica dietro alla riforma presidenziale è però la correlazione diretta tra capo dello stato e parlamento: il primo deve avere maggioranza tra i legislatori, e dunque se non dovesse riuscire a vincere le parlamentari potrebbe decidere di tornare a nuove elezioni (cosa già successa nel 2015), dove però si dovrebbe anche votare per il presidente. Secondo tutti sondaggi l’Akp non supererà quota 43 per cento e tutto è molto legato ai saggi che potrebbe prendere il partito curdo, se dovesse riuscire o meno a superare l’altissimo sbarramento del 10 per cento. Sempre i sondaggi, dicono che Erdogan non dovrebbe nemmeno passare subito al primo turno alle presidenziali, e il candidato repubblicano kemalista del CHP, Muharrem Ince, è l’uomo che ha le poche chance di batterlo (è dato al 30 per cento), magari sperando di compattare sul suo nome l’asse che si presenta unito per il parlamento.

Tecnicamente un Erdogan vincente alle presidenziali avrebbe comunque la possibilità di governare anche senza la maggioranza nell’assise legislativa, perché la nuova costituzione gli garantisce ampi poteri: può formare il governo senza la fiducia dei parlamentari, può imporre il veto e governare per ordini esecutivi. Le opposizioni dicono che avere minoranza in parlamento è un modo per evitare che si inneschi definitivamente la deriva autoritaria, però già nel 2015, quando si trovò senza maggioranza nell’assemblea, portò il paese a nuove elezioni, spaccandolo con una campagna di guerra interna contro i curdi, per infiammare gli elettori nazionalisti che lo avrebbero dovuto sostenere – e infatti, tornato al voto dopo pochi mesi, riuscì a raggiungere la maggioranza assoluta che gli ha permesso la modifica costituzionale.

Anche in Turchia uno dei punti chiave della campagna elettorale, che Erdogan ha fatto girare molto sul fulcro anti-occidentale (secondo una lettura nazionalista, islamista e vittimista che potremmo definire classica: ce l’hanno con noi perché siamo islamici, ma noi siamo forti e vinceremo, semplificando all’osso), è stata l’immigrazione. Come ha fatto notare Daniele Raienri sul Foglio, se l’opposizione, stremata dal controllo del paese imposto da Erdogan, ha ripreso vigore è grazie anche al fatto che Ince ha promesso che, dovesse vincere, lavorerebbe per far rientrare in Siria gli oltre tre milioni di profughi assorbiti dalla Turchia a causa della guerra civile a Damasco.

Ince metterebbe in atto il suo piano trattando direttamente con l’attuale governo siriano, mentre per Erdogan il rientro dei profughi nel loro paese di origine sarebbe successivo a un’opera di “ingegneria geopolitica”, con la quale intende costruire un protettorato turco al nord della Siria. È un’operazione già messa in atto con diverse campagne militari, serve per bloccare le ambizioni territoriali dei curdi siriani alleati ai curdi turchi, ma per essere legittimata richiede la complicata eliminazione di Bashar el Assad.

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