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Tutte le incognite (senza pregiudizi) su Flat tax, pensioni e salario di cittadinanza. L’analisi di Polillo

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Quale sarà la politica del nuovo governo? Domanda difficile, cui non è agevole rispondere. Finora tutte le critiche hanno riguardato le intenzioni. Ma la politica economica di un governo si giudica dagli atti, dalle scelte effettive che compie, dai provvedimenti che vara. Occorrerà quindi del tempo per capire, al di là delle impressioni o, ancor peggio, delle pregiudiziali che attengono agli schieramenti in campo. Da questo punto di vista l’analisi del “contratto per un governo del cambiamento” non aiuta. Una sommatoria di opzioni, che non rappresentano la sintesi per capire la direzione di marcia. Ma riflettono gli opposti indirizzi della campagna elettorale che potremmo sintetizzare in due non convergenti esigenze: quello dello sviluppo e quella di una più stringente politica sociale. Che implica forti elementi di redistribuzione del reddito. Risorse da sottrarre a determinati ceti sociali e territori, per attribuire ad altri. Troppo poco per poter esprimere un giudizio ponderato.

Nel “contratto” mancano i dati fondamentali. Sia l’articolazione quantitativa dei possibili provvedimenti. Sia i tempi di realizzazione. Il salario di cittadinanza, a quanto sembra, sarà varato solo dopo aver riorganizzato i centri per l’impiego. Operazione tutt’altro che semplice, specie nel Mezzogiorno dove la burocrazia è soprattutto sinecura. C’è da aggiungere che se non riparte l’economia di quei territori, incognita non da poco, l’idea di una misura rivolta ad accompagnare lo sviluppo rischia di trasformarsi in pura assistenza, che fa il paio con le pensioni d’invalidità. Somme ingenti, erogate in passato, per far fronte a situazioni di malessere sociale.

Sulla riforma della legge Fornero, valgono le stesse considerazioni. Dire “quota cento” senza specificare le altre condizioni, quali le eventuali penalizzazioni (compresa la possibile applicazione del calcolo del contributivo) o l’età minima richiesta per garantire il beneficio, può spostare il costo della riforma di svariati miliardi. Che non possono essere coperti dal preannunciato prelievo sulle cosiddette “pensioni d’oro”. Il cui ricalcolo, salvo l’ipotesi di usare l’accetta andando incontro a seri rischi di incostituzionalità, implica procedure estremamente complesse ed un contenzioso “di massa” – data la possibile platea – da far tremare le vene ai polsi. Rischiamo di intasare i tribunali, con cause civili nei confronti degli Enti erogatori, che possono durare anni.

Per la flat tax, mentre sul bilancio 2019 pesano le incognite della sterilizzazione dell’Iva e degli oneri derivanti dalle spese indifferibili (senza contare il contenzioso già in atto con l’Europa sul rientro del deficit 2018) pesano le stesse incognite. Un conto è pensare ad uno “one shot”: vale a dire all’entrata in vigore immediata delle due aliquote (15 e 20 per cento). Altro è pensare ad un processo graduale, da sviluppare nell’arco di più anni, con riduzioni progressive. Problema, quest’ultimo che trascina con sé un altro tema: quello del ventilato condono. Che ha una sua logica, più volte sperimentata in passato, se rivolto a chiudere le pendenze di un vecchio regime, reso desueto dalla riforma. Un altro se si realizza prima che il nuovo disegno abbia la necessaria, seppur graduale, attuazione.

Ci si aspettava che alcuni di questi nodi venissero sciolti dal Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, nel suo discorso programmatico di fronte alle Camere. Ma così non è stato. Ha invece preferito attenersi strettamente ai temi del “contratto” di cui si è dichiarato apertamente di essere il “garante”. Dovremmo quindi almeno aspettare la presentazione del Def, nella sua parte programmatica che il ministro Giovanni Tria, dovrà quanto prima presentare. Nel frattempo è bene non cadere nella trappola dei giudizi affrettati. Che hanno comunque il sapore del pregiudizio.

Del resto prima di stracciarsi le vesti è bene ricordare quali sono i presidi che governano le complesse procedure del bilancio. Abbiamo un ministro dell’economia che ha la testa sulle spalle. Una Ragioneria generale che ha il compito istituzionale di vigilare sulle coperture del provvedimento. L’Ufficio bilancio della Camera e del Senato pronto a fare le pulci sulle “Relazioni tecniche”. Cui segue il dibattito pubblico sulle possibili opzioni ed un voto finale, con i vincoli previsti dall’articolo 81 della Costituzione. Infine il vaglio finale del Presidente della repubblica che può rinviare alle Camere – è già avvenuto in passato – provvedimenti sprovvisti di adeguate coperture. Il tutto sotto gli occhi attenti dei mercati. Il cui nervosismo – nel momento in cui scriviamo la Borsa è di nuovo in calo e gli spread sono in crescita – è fin troppo evidente.

Diamo quindi il credito necessario. Soffermiamoci, piuttosto, su alcuni dati incontrovertibili. Nel primo trimestre del 2018 il Pil è cresciuto dello 0,3 per cento. Risultato positivo. Ma non è tutto oro quel che luccica. I consumi sono aumentati di una cifra identica. Ma gli investimenti, per la prima volta, dopo tre trimestri positivi, sono diminuiti dello 0,2 per cento e l’estero ha mostrato un’identica performance con un contributo netto alla crescita pari a meno 0,4 per cento. Ci siamo salvati grazie all’accumulo delle scorte, che hanno dato un contributo positivo pari allo 0,7 per cento. Dati che illustrano, più di ogni possibile chiacchiera, la fragilità della situazione italiana.

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