La Giordania vive il momento più grave dalla morte di re Hussein. Il figlio, Abdullah II, (in foto), saggio e stimato in tutto il mondo, è alle prese con una sequenza impressionante di proteste e di scioperi che stanno mettendo in ginocchio il Paese. Dopo le dimissioni dei primo ministro Hani Mulki e la nomina del successore che sta per essere ufficializzata dell’attuale ministro dell’Istruzione Omar Razzas. La crisi deriva dall’allargamento dell’area di povertà: l’aumento delle tasse, per far fronte alle numerose necessità del Paese, a cominciare dal fabbisogno d’acqua, hanno colpito il ceto medio, ma hanno fatto registrare un maggiore impatto sulle classi meno abbienti che dipendono in tutto e per tutto dalla “carità” governativa e dagli espedienti su cui la loro fragilissima economia domestica dipende. Il 18% dei giordani, soprattutto giovani, è disoccupato e se ai problemi interni si aggiungono quelli esterni dovuta alla scomoda posizione del Paese, stretto tra Iraq, Siria, Israele e Arabia Saudita, si ha un quadro esatto della situazione che preoccupa Abdullah, ma anche l’Occidente che con il Regno hashemita ha sempre intrattenuto ottimi rapporti, ma che negli ultimi tempi, complici anche le conseguenze delle cosiddette “primavere arabe”, sembrano essersi alquanto raffreddati.
La Giordania è una nazione composita che si auto-rappresenta, per motivi geopolitici, come cruciale nell’area mediorientale. Alla sua stabilità sono legati rapporti che per quanto precari ammortizzano gli effetti della crisi endemica Israele-palestinese. E tengono a bada le mire egemoniche saudite che potrebbero far precipitare l’intera regione in una catastrofe senza fine se soltanto da Riad si manifestassero ambizioni contrastanti con gli interessi degli altri Paesi sulla Giordana. Dalla quale, è bene non dimenticarlo, capi e gregari di Al Qaeda prima e poi dell’Isis hanno modo i primi passi beneficiando della relativa tranquillità di una società non inquinata dal terrorismo islamico.
Sembra impossibile, ma se la Giordania entra nel “grande gioco” dell’area, a cavallo della guerra siriana e della recrudescente crisi Israele-palestinese, è impossibile che non diventi terra di conquista con tutto ciò che comporta l’apertura di un nuovo fronte. Ecco perché alle derive sociali cui si cerca di porre rimedio si guarda con particolare apprensione (e l’Europa dovrebbe essere più attenta): da esse potrebbero trarre linfa organizzazioni ritenute ingenuamente marginali simpatizzanti con l’islamismo estremista e legate a centrali terroristiche, in particolare con Daesh.
Dalla riva orientale del Mar Morto, il Medio Oriente sembra un’area desertica pacificata, dove nessun tipo di conflitto è pensabile, ma evidentemente non è così. Il grande lago è la metafora della pace apparente. Ed anche quando l’occhio si spinge sull’altra sponda, fino scorgere le luci di Gerico, nulla lascia intuire che da una parte e dall’altra si viva con apprensione non soltanto l’attesa del domani, ma la precarietà del presente. Una sensazione che si coglie nelle conversazioni con i giordani, ma anche con i rari israeliani di passaggio da quelle parti; con gli osservatori occidentali che affollano i lussuosi alberghi sul Mar Morto alla ricerca di risposte che non trovano. La Giordania è un avamposto strategico dal quale cercare di interpretare i movimenti delle parti contendenti, anche se quasi mai è servito a qualcosa. Tuttavia, il suo rapporto con gli Stati Uniti e l’Unione Europea ed il costruttivo atteggiamento nel mondo arabo-islamico le conferisce un ruolo particolare dal quale, se si vuole interagire con le questione aperte nell’area, non è possibile prescindere. Almeno fino ad oggi.
Tuttavia l’opzione “pacifista” nei confronti di Israele non significa che le relazioni con lo Stato ebraico siano accettate dalla popolazione. Le autorità giordane, a cominciare dal re Abdullah, tentano con fatica di tenere sotto controllo i sentimenti anti-israeliani che qualora esplodessero getterebbero il Paese nel gorgo del fondamentalismo.
Gli interminabili negoziati di pace, comunque, sui quali l’attenzione giordana è sempre stata vigile anche in ossequio alla sensibilità dei cittadini, hanno ad oggetto la tutela dei Luoghi Santi Islamici di Gerusalemme, i rifugiati, l’acqua, i confini. Soprattutto, rimane fondamentale per i giordani evitare che si verifichi, nell’ambito dell’infinito processo di pace che sembra allontanarsi, la creazione di una confederazione fra la West Bank (con o senza Gaza) e la Giordania. L’ ostilita’ a questa eventualità e’ dovuta a due fattori: da una parte la Giordania, come tutto il mondo arabo, non puo’ ufficialmente accettare il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Dall’altra, una parte considerevole dell’establishment del regno ritiene di aver già dato abbastanza alla causa palestinese, senza doversi sobbarcare anche il peso di una unione che potrebbe rivelarsi foriera di una turbolenza economica e politica difficilmente controllabile.
Insomma, la Giordania è preoccupata che a rimetterci possa essere il suo territorio, peraltro scarso di risorse, dove la povertà che tanto Hussein quanto Abdullah hanno cercato di dominare, è esplosa con virulenza come si prevedeva da tempo.
Nonostante tutto, comunque, il governo giordano è stato particolarmente attivo nel corso della crisi tra Israele ed Libano dell’estate 2006 quando ha inviato considerevoli aiuti alimentari e sanitari ai libanesi e non ha risparmiato critiche all’interventismo militare israeliano, considerato sproporzionato, ed all’azione di Hezbollah che la Giordania considera una pericolosa fonte di instabilità soprattutto in relazione ai forti legami con Teheran. Il regno hashemita e’ impegnato apertamente nella lotta contro il terrorismo ed i suoi presupposti ideologico-religiosi.
Ma è l’allargamento delle fasce di indigenza il vero problema giordano. Gli sforzi del sovrano, del governo e del parlamento negli ultimi dieci anni si sono rivelati vani. Lo stipendio medio è di centosettanta dinari al mese, poco meno di duecento euro; un chilo di carne costa dieci dinari, un pollo tre dinari; il turismo è misero e perlopiù gestito da grandi holding occidentali: poco o nulla rimane ai giordani i quali, tra l’altro, stanno diventando minoranza. Infatti, su quasi sei milioni di abitanti, ben due milioni sono palestinesi, un milione gli iracheni, ed altrettanti immigrati dal Bangladesh, dell’India, dall’Egitto. Paradossalmente i palestinesi sono i più ricchi, avendo venduto tutto quel che potevano vendersi nel 1948, ed hanno investito in terreni agricoli che, per quanto scarsamente produttivi in alcune zone, sono molto costosi poiché destinati ad un possibile sviluppo che tarda però a manifestarsi. Il problema è l’acqua la cui mancanza è il dramma con il quale la Giordania si confronta ed è costretta a fare i conti con le forniture assicurate da Israele e, fino allo scoppio del conflitto, la Siria.
Nonostante tutto, alcune città cominciano ad assumere fattezze meno deprimenti di qualche anno fa. Amman, per esempio, deve il suo recente sviluppo ad eventi che hanno avuto origine fuori dai confini del regno: l’ultimo arrivo dei profughi palestinesi nel 1967 e l’ “invasione” degli iracheni dopo gli eventi successivi al 2003. La contraddizione fra l’anima conservatrice islamica e la nuova spinta modernizzatrice verso stili e mode marcatamente occidentali si nota facilmente per le strade della città, in special modo nei quartieri residenziali di Abdoun o Rainbow Street, dove minigonna e velo spesso “passeggiano” fianco a fianco, ma se ne vedono sempre di meno i rispetto a qualche tempo fa. Osservando la città dalla terrazza del Wild Jordan Club, ritrovo di studenti bene locali e stranieri, si ha l’impressione di trovarsi davanti ad un agglomerato che vuole uscire da un lungo medioevo per gettarsi nelle braccia della modernità. Un’eccentrica architettura araba di fattura contemporanea, conferma la sensazione. E dai discorsi che si colgono tra i ragazzi che parlano in inglese emerge l’intensità del rapporto tra le nuove generazioni giordane con l’Occidente. Dato rafforzato dalla proliferazione ad Amman di locali dove si puo’ liberamente consumare alcol (tranne che durante il Ramadan) e di discoteche che si ispirano alla vicina Beirut e dove la gioventù abbiente della citta’ si diverte a fare mattino. L’anima della città, il suo baricentro, risiede ancora nelle strade di “down town”, il centro storico della città, dove dominano veli e barbe lunghe.
Amman resta, comunque, una città divisa in due: da una parte “West Amman”, rifugio per la buona borghesia ed aristocrazia giordana e per gli occidentali, dall’altra tutto il resto. Ed è in questa parte che i tumulti delle scorse settimane hanno avuto inizio.
Lo sviluppo economico ed immobiliare, negli anni scorsi ha trasformato la capitale: West Amman è diventata il paradigma del benessere giordano guardato Coin diffidenza dagli “esclusi”; rimane circondata da un esercito di bisognosi e sopravviventi. Un esercito che, come dicono le autorità hashemite, potrebbe servire da massa di manovra al fondamentalismo islamico. Darebbe il colpo di grazia non soltanto ad un Paese moderato e ragionevole, ma all’intera area che vorrebbe essere pacificata come lo è il Mar Morto, dolcissimo e muto, nel quale, affondandoci lo sguardo, fino a poco tempo fa si spengevano, sia pure illusoriamente, le ansie di un mondo inquieto.