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Il governo ha quattro anime. Pronte per la pace, capaci di fare la guerra (tra loro)

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Giovedì si è riunito per la sesta volta il consiglio dei ministri, iniziando i suoi lavori alle 19.23 per concluderli 22 minuti dopo alle 19.45, come si può facilmente desumere dal comunicato ufficiale diramato dall’ufficio stampa di Palazzo Chigi.

Il governo ha deliberato per decreto la sospensione dei processi al tribunale di Bari, afflitto da una incredibile vicenda di inagibilità dei locali che lo ospitano, per poi passare rapidamente all’esame di alcune leggi regionali. Non esattamente un’agenda esaltante, non proprio una mole di decisioni tale da stupire addetti a lavori e opinione pubblica.

Va detto per onestà intellettuale che nelle prime settimane di governo c’è grande confusione nei ministeri e c’è bisogno di mettere mano agli staff, quindi è abbastanza fisiologico non essere subito in grado di incardinare provvedimenti, tanto nella versione più strettamente governativa (come i decreti legge), quanto nella versione parlamentare. Al tempo stesso però questo “primo tempo” di governo ci permette di cominciare a delineare una sorta di “mappa” all’interno dell’esecutivo, che, giorno dopo giorno, va chiarendo i suoi confini, la sua struttura “geologica”, i suoi punti di potenziale crisi.

Ne esce una fotografia piuttosto interessante, che si annuncia tutt’altro che neutra rispetto ai mesi (o anni) che abbiamo davanti. Una fotografia divisa in quattro parti essenziali, un po’ come si fa oggi su Instagram.

C’è innanzitutto il solido gruppo intorno a Matteo Salvini, con i ministri Fontana, Centinaio, Bongiorno, Stefani e il sottosegretario alla Presidenza Giorgetti. Il capo non si discute, la linea è molto chiara e dominata dal tema immigrazione, che ha il formidabile pregio di permettere risultati immediati sul piano della comunicazione (e forse anche concreti più avanti) rigorosamente a costo zero, anzi annunciando tagli dei costi (più facili a dirsi che a farsi).

Poi c’è la componente legata a Di Maio, diciamo l’ala più istituzionale del Movimento. Ci sono i ministri Toninelli, Bonafede, Fraccaro, il sottosegretario alla Presidenza Spadafora. Maneggiano dossier delicatissimi (Ilva, Alitalia, TAV, intercettazioni, reddito di cittadinanza) che hanno enorme impatto sociale ed economico. Sono quindi nella scomoda ma stimolante posizione di poter incidere su tutte o quasi le partite più importanti che l’Italia dovrà giocare nei prossimi anni. Però stanno toccando con mano che c’è poco da fare i fenomeni, come Di Maio ha dovuto amaramente constatare nella vicenda del contratto per i “rider”. Partito come un razzo, il ministro ha dovuto accettare la logica della concertazione, passando da un provvedimento pronto nel giro di poche ore all’istituzione di un tavolo di confronto al ministero. Insomma questo gruppo ha sulle spalle la sfida politica più difficile, cioè quella di trasformare un movimento di protesta in forza di governo (operazione raramente riuscita nella storia) e per giunta deve cercare di farlo con pochi soldi a disposizione.

Terza (ma non meno rilevante) componente è quella dei ministri “tecnici”, Tria e Moavero in particolare. In un certo senso (ma non del tutto) ne fanno parte anche il ministro Savona (più sensibile però alle istanze di Salvini), la ministra della Difesa Trenta e lo stesso presidente Conte (che invece hanno un canale privilegiato di comunicazione con Di Maio). Qui si toccano equilibri delicati e precari, sia per la dimensione internazionale (UE, BCE, NATO) che per quella dei mercati finanziari, equilibri sui quali il Capo dello Stato mantiene il massimo grado di attenzione. Non a caso Tria e Moavero si muovono con prudenza (pur senza perdere di vista la linea politica della maggioranza), come fa il ministro degli Esteri oggi nella sua intervista al Messaggero, piena di riserve sulla reale capacità dell’Europa di mettere mano al dossier immigrazione. Anche perché, come ha ormai definitivamente compreso il ministro dell’Economia, i margini di manovra nel bilancio dello Stato sono assai ridotti e una crisi di fiducia sull’Italia è pronta a scattare in ogni momento, con costi che si scaricherebbero non solo sulle finanze pubbliche ma anche sul sistema produttivo per effetto dello spread.

C’è infine un’ala più movimentista, che ha nel presidente della Camera Fico e nel ministro Lezzi i suoi punti di riferimento. È la componente del M5S che vede come fumo negli occhi l’enorme spazio conquistato da Salvini e non fa mistero di attribuirne la colpa a Luigi Di Maio, giudicato troppo succube del condottiero leghista.

Sono quattro eserciti in fase di schieramento, potenzialmente in grado di marciare separati per colpire uniti. Ma anche perfettamente in grado di aprire conflitti interni dall’esito tutt’altro che pacifico.

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