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Ecco perché il ministero per il Sud di Barbara Lezzi serve

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Non è vero che non serve un ministero per il Sud: chi lo ha affermato ha mostrato ancora una volta il proprio dilettantismo accademico, perché continua ad ignorare tutto quanto è in corso nelle regioni meridionali, sia a livello di interventi pubblici – bisognosi di essere accompagnati e monitorati con grande attenzione – e sia nella business community ove, accanto ai grandi gruppi, stanno crescendo tante imprese locali che offrono concrete speranze non solo per lo sviluppo dell’Italia meridionale ma anche dell’intero Paese., anche se dovranno aumentare ancor più le loro dimensioni e la capacità competitiva.

L’istituzione del ministero per il Sud nel nuovo governo Conte ricalca quello della Coesione e del Mezzogiorno nel precedente esecutivo Gentiloni. Dalla denominazione del dicastero sembrerebbe di comprendere che dovrebbe occuparsi solo delle regioni meridionali. La guida è stata assegnata alla nostra conterranea senatrice Barbara Lezzi di Lecce cui è doveroso rivolgere un augurio di buon lavoro.

Il meridionalismo d’antan – che da anni continua a sollecitare imperterrito sempre nuove risorse per il Meridione, senza mai chiedersi poi se e come vengano effettivamente impiegate – si sta interrogando su cosa possa fare un ministero senza portafoglio, a fronte delle crescenti esigenze delle popolazioni meridionali che, secondo i rappresentanti di quella corrente di pensiero, meriterebbero ben altro apporto di risorse rispetto a quelle prevedibilmente destinate a soddisfarle nel programma che il nuovo governo presenterà in Parlamento.

Ora, chi scrive ha ritenuto opportuno ormai da tempo prendere le distanze da questo meridionalismo d’altri tempi che finisce col raffigurare il mezzogiorno sempre e soltanto segnato dal divario con il Nord, sempre e soltanto bisognoso di trasferimenti aggiuntivi in quanto privo di una qualsivoglia dinamica interna che, al contrario, se analizzata con rigore scientifico, mette in luce in tutte le regioni numerosi punti di forza in agricoltura, nell’industria, nel turismo, nella ricerca e nelle infrastrutture, anche se in tanti continuano ad ignorali o almeno a sottovalutarli. Pertanto, ritengo doveroso riflettere su quanto il ministero affidato alla senatrice Lezzi potrebbe fare, sia partendo da quanto eredita dalla gestione del prof. De Vincenti, e sia stimolando in profondità la società meridionale ad impegnarsi in un costante sforzo autopropulsivo, capace di generare dall’interno risorse sufficienti per la sua crescita e per aumentare l’occupazione.

Non è affatto vero infatti che il quadro degli interventi in corso sia di modeste dimensioni e quasi impercettibile nei suoi risultati. Bisogna prendere in considerazione in proposito sia gli interventi finanziati con i patti per il sud sottoscritti dai precedenti governi con regioni e città metropolitane, e sia quelli invece portati innanzi dalle stesse Regioni con i fondi comunitari del ciclo 2014-2020. Così come si dovrebbero ricordare – ma stranamente i vecchi meridionalisti li dimenticano – gli interventi in conto capitale da parte delle imprese pubbliche nazionali nelle regioni meridionali che in taluni casi hanno assunto negli ultimi anni dimensioni e rilanci quantitativi persino spettacolari.

Allora ricordiamo che con i patti per il sud sottoscritti con le regioni (Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna) e con 7 città metropolitane (Bari, Cagliari, Catania, Messina, Napoli, Palermo e Reggio Calabria) sono stati messi in cantiere complessivamente 770 interventi ( che includono anche più progetti) per un importo di 39,2 miliardi, così suddivisi: 35% alle infrastrutture, 29% all’ambiente, 18% allo sviluppo economico, 7% a turismo, cultura e valorizzazione di risorse naturali, 3% alla formazione, il 7% ad altri impieghi e una quota limitata al rafforzamento amministrativo. Ebbene dei 39,2 miliardi stanziati, 6,3 miliardi, pari al 16%, riguardano lavori in corso di esecuzione di 691 progetti; 15,2 miliardi, pari al 39%, sono riferiti a lavori attivati per 1.810 progetti; 6,6 miliardi, pari al 17%, riguardano opere in avvio di progettazione, e 11,3 miliardi, pari al 28%, sono destinati a finanziare 572 progetti in programmazione. Questi dati (ufficiali, di fonte ministeriale) risalgono, per quel che si riferisce agli stati di avanzamento, ad alcuni mesi orsono.

Allora, già il vigilare con particolare impegno sullo stato di attuazione di questi interventi o sulla loro accelerazione, puntando ad ultimarli o a cantierizzarli in tempi ragionevoli, è un compito spettante alla nuova ministra che può meritoriamente essere assolto da lei e dal suo staff.

Inoltre è in corso di attuazione il contratto istituzionale di sviluppo per l’area di Taranto che ha previsto interventi complessivi per 882,2 milioni di euro così suddivisi: 416,6 milioni (47,2%) per infrastrutture portuali, 319 milioni (36,2%) per salute e ambiente, 109,4 milioni (12,4%) per rigenerazione urbana e 37,1 milioni (4,2%) per l’Arsenale. Ora l’1,7% delle risorse stanziate, ovvero 15,3 milioni, è stato già impiegato in lavori conclusi, il 49,8%, pari a 439,3 milioni, riguarda interventi in esecuzione, il 2,9% ovvero 25,5 milioni è riferito a lavori in affidamento, mentre il 45,6%, corrispondenti a 402,1 milioni, riguarda interventi in progettazione e programmazione.

Questo, lo si ripete, era lo stato di avanzamento di Patti e Contratto per Taranto ad alcuni mesi orsono, ma la situazione ha avuto ulteriori sviluppi in tempi più recenti.

È opportuno ricordare inoltre che le imprese pubbliche nazionali (Leonardo, Ferrovie, Poste, Enel, Eni, Grtn, Gse, Terna, Anas), stanno concentrando nelle regioni meridionali percentuali significative ed in molti casi in crescita dei loro investimenti in conto capitale. Quelli di Leonardo (ex Finmeccanica) sono passati dal 12,2% del 2014 al 28,9% del loro totale nel 2016. Il gruppo Ferrovie, a sua volta, è passato nel Sud dal 18,4% del complesso dei suoi interventi nel 2014, al 34,7% nel 2016, l’Enel nel 2016 ha concentrato nel Mezzogiorno il 33,8% di tutti i suoi investimenti, mentre l’Eni, sempre nel 2016, ha toccato il 38,9%, Terna il 56% e l’Anas addirittura il 72,3%.

Allora, monitorare con puntigliosa attenzione e rigorosa vigilanza il prosieguo degli investimenti dei grandi gruppi pubblici nelle regioni meridionali è un altro compito del ministero per il Sud, così come quello di assicurare – con il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti – che partano quanto prima gli investimenti previsti per le cinque Ali-Aree logistiche integrate in Campania, Puglia-Basilicata, Calabria, Sicilia Nord-occidentale e Sicilia Sud-orientale, previsti dal Poninfrastrutture e reti 2014-2020 che proprio nelle prossime settimane andranno a definitiva approvazione.

Ma un altro compito specifico del ministero per il Sud è quello di approvare le Zes-Zone economiche speciali, e di seguirne la complessa fase attuativa con tutti i soggetti istituzionali interessati. La Puglia si accinge ad inviare al ministero i documenti delle due Zes previste sul suo territorio, quella adriatica e l’altra del Mare Ionio che è interregionale con la Basilicata, una specificità che inevitabilmente ha richiesto un tempo più lungo di elaborazione dei Piani di sviluppo strategico rispetto a Campania e Calabria che, invece, hanno già visto approvate le loro Zes che sono monoregionali.

Ma il ministero per il Sud può collaborare con le regioni per l’impiego dei loro fondi comunitari del ciclo 2014-2020, affiancandole tra l’altro nella necessaria accelerazione della spesa e offrendo, se del caso, il supporto tecnico della Agenzia per la Coesione.

Insomma, non è affatto inutile questo ministero che inoltre potrebbe affiancare Invitalia nell’attrazione degli investimenti dall’estero, dialogando con i territori destinati ad ospitarli, gli Enti locali, le Autorità di sistema portuali, le Università, i centri di ricerca, e i Consorzi Asi là dove ancora esistenti o con le agenzie regionali che li hanno sostituiti.

Dovremo ragionare a fondo sulle dimensioni di gran parte delle nostre pur dinamiche Pmi, se cioè quelle dimensioni siano ancora idonee ad assicurare un vero decollo dello sviluppo economico meridionale. Così come dovremo riflettere autocriticamente sulle effettive capacità di tanti sindaci e assessori meridionali di Regioni, Province e Comuni di favorire lo sviluppo dei territori con provvedimenti e iniziative che vadano in quella direzione.

Insomma, se il Mezzogiorno non produrrà uno scatto autopropulsivo – avendone peraltro già ora tutte le risorse umane e materiali, ed è bene che anche su questo si faccia chiarezza una volta per sempre – non vi sarà nessuno in Italia e all’estero che potrà regalare alle popolazioni meridionali un futuro migliore. Nei giorni scorsi il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ce lo ha detto in termini sgradevoli, certo. Ma, secondo me, ha detto la verità.


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