Ci sono degli incroci interessanti che riguardano la Nato, l’Europa e Israele, e val la pena di metterli insieme alla vigilia del viaggio europeo del primo ministro Benjamin Netanyahu.
Per esempio, per la prima volta alcune forze armate israeliane (i Serpenti alati, i parà della 35esima brigata) parteciperanno a un’esercitazione Nato, la “Sabre Strike”, a cui prendono parte 19 Paesi e si svolgerà lungo il fianco orientale dell’Alleanza (Polonia e stati baltici). Chiaro l’intento, chiari i target: la Russia, confinante, è una minaccia soprattutto per quanto riguarda le penetrazioni clandestine con cui diffonde argomentazioni divisive all’interno delle opinioni pubbliche altrui. La deterrenza militare è uno strumento di dissuasione, che la Nato ha rimesso in piedi a pieno regime dopo la crisi ucraina (anche se non sta fornendo grandi frutti).
La partecipazione israeliana a una manovra militare che dalla Nato assicurano non essere una provocazione nei confronti di Mosca, ma ha un chiaro significato anche perché si svolge nei Paesi che subiscono maggiormente le ingerenze russe, è importante se inquadrata in un’ottica più ampia. Russia e Israele mantengono un dialogo interessato: Tel Aviv sa che i russi hanno il controllo della Siria, e dunque è con loro che deve interloquire per poter mantenere aperto il canale operativo con cui preserva la propria sicurezza nazionale (attaccando i trasferimenti di armi con cui gli iraniani sfruttano lo scenario siriano per rinforzare i proxy anti-israeliani regionali, Hezbollah o Hamas) e allo stesso tempo sa che dovrà cercare la sponda del Cremlino per creare una leva politica in grado di bloccare l’espansionismo di Teheran che usa la Siria come piattaforma avanzata.
Dall’Iran, allora: il segretario generale dell’Alleanza Atlantica, Jens Stoltenberg, intervistato dall’autorevole settimanale tedesco Der Spiegel, ha detto che Israele è un partner, ma non un membro della Nato e che le “garanzie di sicurezza” dell’Alleanza non si applicheranno in automatico in caso di un conflitto con l’Iran. La partecipazione israeliana alle manovre di questi giorni (sono iniziate il 3 giugno e si chiuderanno il 15) diventa allora una questione politica. Israele non sta entrando nell’alleanza, però cerca di mostrarsi un partner affidabile, anche su questioni di non diretto interesse come il confronto con la Russia (con cui Tel Aviv ha un approccio molto più aperto e pragmatico della Nato), magari nell’ottica futura.
Le intelligence israeliane da tempo sostengono che le armi che i Pasdaran iraniani hanno trasferito agli Hezbollah prima o poi saranno usate contro lo Stato ebraico, con conseguenze incontrollate visto che adesso Tel Aviv considera un’eventuale azione militare non più direzionata soltanto contro il gruppo armato, ma al Libano tutto (data l’influenza che il Partito di Dio ha nel governo del Paese). Allargando l’ottica a una circostanza terrificante, Israele potrebbe finire coinvolto in uno scontro aperto contro l’Iran, per cui potrebbe servire l’appoggio pratico e diplomatico non solo dei partner regionali (come l’Arabia Saudita), ma anche di quelli occidentali.
Da oggi, lunedì 4 giugno, Netanyahu è in Europa proprio con l’obiettivo di parlare dell’Iran, della sua malefica diffusione attraverso il Medio Oriente (tramite le milizie politiche locali, secondo il piano del capo dell’unità d’élite dei Pasdaran, il generale Qassem Souleimani) e dei suoi piani avventuristici collegati al programma nucleare. Bibi incontrerà i leader di Germania, Regno Unito e Francia (inizierà dalla Cancelliera Angela Merkel) e cercherà di raccogliere il sostegno degli alleati chiave per modificare l’accordo nucleare internazionale con l’Iran e per spingere le forze iraniane fuori dalla vicina Siria.
Il primo dei punti è quello che interessa di più gli europei: i tre Paesi sono parte del sistema multilaterale “5+1” che ha firmato il deal nel 2015, e sono rimasti spiazzati dalla decisione finale americana – seppur annunciata – di tirarsi fuori dall’intesa. Ora i Paesi europei vogliono trovare una soluzione, che eviti le sanzioni reintrodotte dagli americani e che non faccia pentire Bruxelles di non aver seguito Washington: ossia, garanzie sulla buona condotta iraniana.
Netanyahu sa che difficilmente potrà far cambiare linea all’Europa, che crede nell’intesa come “isola di cooperazione”, termine coniato da Berlino che sta a significare che se non c’è di meglio, l’accordo può essere un aggrappo per non far ricadere l’Iran nello stato di paria in cui era finito un decennio fa. Però il premier israeliano, potrebbe influenzare i partner europei su alcuni dettagli non inclusi nell’accordo, come lo sviluppo dei missili iraniani e la scadenza delle restrizioni sull’attività nucleare.
Qui è il punto: Tel Aviv potrebbe accontentarsi di un’intesa congiunta con Francia, Germania e Regno Unito per imporre all’Iran un ritiro forzato dalla Siria, sebbene sa che questo è un argomento quasi irraggiungibile e da discutere soprattutto con la Russia. Mosca è l’unico attore in campo in grado di pressare Teheran su questo aspetto, che invece gli ayatollah considerano un asset strategico. I russi hanno fatto sapere la scorsa settimana che potrebbe esserci un accordo: gli iraniani potrebbero convincersi a spostare gli acquartieramenti delle proprie forze (dirette o proxy) distanti dal confine israeliano, dove invece si trovano ora: quasi impossibile però che escano del tutto dalla Siria, e su questo quasi certamente Bruxelles non potrà trovare risultati migliori di Mosca (sebbene l’Ue può pressare sugli accordi economici collegati al deal).