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Da De Gasperi all’IA: come si scrive la storia. Lezioni di futuro
L’Europa (in)difesa. Tutte le mosse di Bruxelles

Gli Stati nazionali, l’Europa e il dramma dell’immigrazione

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Il tema che dominerà quest’estate sarà l’immigrazione. Le tragedie che lacereranno il futuro dei nostri figli saranno gli effetti sociali dell’immigrazione. D’altra parte, sapevamo da tempo, almeno dagli anni ’80, che questo sarebbe stato il vero problema del nostro tempo, e adesso il nodo infine è arrivato al pettine. Quello che invece non era prevedibile anni fa, anche soltanto quando Romano Prodi e Giorgio Napolitano fecero nel 1997 i respingimenti albanesi, con il plauso di tutti e le lacrime di Silvio Berlusconi, è che l’Europa si sarebbe fatta trovare tanto fragile, rischiando di disintegrare la sua coesione interna infrangendosi sugli scogli del problema.

Se la Prima Guerra Mondiale vide il formarsi dei nazionalismi, la Seconda ha contemplato l’ascesa dei totalitarismi ideologici e guerrieri, il Secondo Dopoguerra ha visto nascere il sogno europeo. Oggi, davanti ad un continente divenuto territorio di conquista, sono gli Stati nazionali che stanno mandando in frantumi oltre cento anni di speranze. Non c’è nessuna malinconia da covare in questa situazione. Quello che non funziona, il tempo lo elimina dalla storia, senza preavviso.

L’aspetto che nessuno aveva previsto, infatti, quando negli anni ’90 l’unificazione europea è divenuta una realtà politica, dopo il crollo del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca, è che la collocazione geografica degli Stati sarebbe divenuta cruciale. Nell’Unione i Paesi ricchi stanno al centro e in alto, mentre quelli poveri ai margini e sotto, bagnanti dalla frontiera liquida di quel Mediterraneo che è oggi il confine infranto e insanguinato che seppellisce il sogno occidentale più antico nel letto di morte della civiltà umana. L’Europa, dopo il botta e risposta tra Francia e Italia e dopo che le frontiere interne sono state chiuse anni or sono con il blocco di Schengen, non è più la stessa di prima.

La questione non preoccupa ormai l’Inghilterra della Brexit, non impensierisce per nulla Francia e Germania, che hanno concepito l’Europa come un mezzo per esprimere in altro modo la loro sovranità, ma anima la politica italiana, per decenni abituata a sciogliere la propria soggettività particolare e collettiva nell’alibi dell’ipocrisia ideologica globalista.

È stato detto a ragione: non esiste un diritto ad invadere, non possiamo diventare un luogo senza confini spirituali, senza dignità politica, un casello nel quale passano fiumi di persone senza pagare pedaggio, come se gli italiani non esistessero. Non possiamo essere il catino dove tutti riversano l’acqua sporca del mondo. La vittoria della Lega e di M5S si regge, in modi diversi, su questo punto focale, considerato tabù da tutta la politica popolare e socialista: vale a dire la riaffermazione forte e indiscutibile del potere di scelta del governo italiano in materia di politica estera, nonché del valore assoluto della nostra volontà democratica. Non soltanto non è possibile ricevere nella compiacenza generale quantità impressionanti di disperati, ma l’atteggiamento vergognoso della Francia, verso i migranti e verso di noi, testimonia la considerazione piena di disprezzo razzista che silente aleggia oltralpe nei nostri riguardi.

Loro sono l’Europa, noi invece siamo il confine marginale del multiculturalismo globalizzato. Non eravamo, d’altronde, già nell’800 un’espressione geografica? Tanto vale che diventiamo un luogo di accoglienza nel quale si insediano coloro che emigrano, che possono occupare l’Italia, ma che non devono varcare i confini della vera Europa, quella del Nord, a cui noi, secondo loro, non apparteniamo.

Ebbene no, questo proprio non lo possiamo accettare. Se anche il futuro implicherà, come durante le invasioni barbariche, un superamento della nostra identità collettiva, è fondamentale che ci difendiamo e blocchiamo noi questo fenomeno, ritardandolo il più possibile, e che non lo accondiscendiamo in alcun modo per compiacenza altrui.
Una nazione si regge su un’anima collettiva, la quale per allargarsi e integrare altre culture e popoli ha bisogno di tempo, di tanto tempo. Quattrocento anni ci sono voluti per creare dopo la disfatta dell’Impero Romano le nazioni. Adesso si vorrebbe che noi superassimo la coesione interna, divenuta Stato alla fine del XIX secolo, in pochi mesi, perché così deve essere necessariamente secondo Bruxelles?

Ma via. Luigi Di Maio e Matteo Salvini hanno fatto benissimo a sollevare la questione in modo sostanziale, ed è importante che il governo Conte non molli e non retroceda di un passo sui respingimenti, nonostante le pressioni interne ed esterne di senso contrario.

I porti sono confini, e i confini per potersi aprire devono essere chiusi. Non esiste uno Stato senza delimitazione dello spazio territoriale, e non esiste una politica che non si preoccupi, innanzi tutto, dalla realtà umana interna al proprio Stato, della sicurezza, dell’ordine e della libertà dei propri cittadini.

Come pensava Charles De Gaulle, l’Europa deve essere un patto federativo tra Stati sovrani, non una sovranità trascendente contraria agli Stati. Perché altrimenti l’Unione non è altro che il potere di alcuni Stati su altri.
Se noi non interrompiamo e regoliamo questi arrivi continui finiremo per regalare ai nostri figli una nazione morta, dominata da una guerra civile tra bianchi e neri, tra cittadini europei nativi e nuovi popoli migranti.
Hegel spiega, nella Fenomenologia dello spirito, che la lotta servo-padrone è simbolicamente un conflitto per il riconoscimento tra chi ha e chi non ha. Noi stiamo facendo entrare migliaia e migliaia di persone che non hanno nulla, a cui non garantiamo nulla, non pensando che investiamo così non sulla loro dignità ma sul sicuro conflitto sociale di domani tra noi e loro.

L’Italia è uno Stato nazionale sovrano. L’immigrazione deve essere frenata e controllata con forza. Anche perché in politica tutto è reversibile e rivedibile, persino l’Europa, ma non il bene comune, non l’interesse nazionale, e non la necessità, ricordata da Cicerone, di fare del proprio utile un fine di giustizia.

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