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Promoveatur ut amoveatur? Cosa si mormora oltretevere sull’uscita di Galantino dalla Cei

Quando Papa Francesco chiamò l’arcivescovo di Perugia, il cardinale Gualtiero Bassetti, a guidare la Conferenza Episcopale Italiana, lui si preparava a presentare la sua rinuncia per motivi d’età, come i codici prevedono per chiunque compia 75 anni di età. Così ha dovuto mantenere la titolarità della diocesi e assumere pure la guida, non facile della Cei. Può essere che abbia chiesto al papa di poter avere al suo fianco un uomo di fiducia? Non che l’allora segretario della Cei, monsignor Nunzio Galantino, non lo fosse. Ma era giunto lì, in Cei, sull’onda del cambiamento, l’uomo di Bergoglio in Cei. Nominato Bassetti presidente si sarebbe andati verso una diarchia? Bassetti oltre al peso degli anni e a quello della sua diocesi di appartenenza, doveva far collimare la scarsa familiarità con la struttura con l’urgenza di una riforma; porre al centro non più i progetti culturali, ma l’Evangelii Gaudium. Fare della recalcitrante Cei la casa madre italiana di una chiesa in uscita non sarebbe stato compito facile. E gli attriti evidenti tra il vescovo di Roma e i suoi confratelli italiani lo rendevano ufficiale, noto. Basti ricordarsi di quel curioso comunicato, uscito chissà come dagli uffici della Cei, in cui ci si congratulava con il nuovo papa, Angelo Scola, pochi minuti prima che si affacciasse Jorge Mario Bergoglio. Quell’errore è stato letto dai giornali in tanti modi, ma la vera domanda per me è questa: chi aveva colpito chi nel momento in cui è stato divulgato? Non conta rispondere, conta capire se può essere questo il punto per rileggere il lungo braccio di ferro sul criterio di nomina del presidente della Cei, che Francesco voleva dare ai vescovi italiani che non lo volevano, lo rifiutarono, fino a trovare il rumoroso compromesso del voto su una terna di candidati da sottoporre al papa. Non basta: durante l’ultima assemblea il papa è tornato a sollecitare una composta riduzione delle diocesi italiana, ma nessuna voce si è levata in favore del suo disegno.

Più che una lettura contrapposta tra detrattori di monsignor Galantino e suoi apologeti, quella che serve è una lettura di contesto. Perché l’ex segretario della Cei ha lasciato il suo incarico per andare in quell’universo della macchina economica del Vaticano che si trova al centro di una riforma ormai definita, ma per la quale servono interpreti. Lo ha detto lo stesso Papa Francesco nell’intervista con la Reuters. Sta per andare in pensione il responsabile dell’Apsa, annunciava in quell’intervista. Si tratta della struttura che amministra il patrimonio della Santa Sede, paga gli stipendi e potrebbe essere chiamata a investire i 500 milioni del fondo pensioni. Parlando con la Reuters Bergoglio ha detto che proprio l’età dei titolare indicava il problema: è bravo, ma è figlio dell’epoca passata, dobbiamo entrare nella cultura della trasparenza. Cosa vuol dire? Trasparenza in questo caso non è l’opposto di opacità, ma di segretezza. La cultura della segretezza è profonda in tanti ambienti vaticani, l’economia ovviamente più di altri. Passare all’epoca della trasparenza vuol dire cambiare registro culturale. Non siamo più obbligati a celare perché i nemici – magari lo stato sabaudo – ci spiano, ma siamo tenuti a dimostrare che la barca di Pietro è trasparente, come certe imbarcazioni che mostrano ai turisti i fondali marini. Non è cosa da poco quando si parla di Fondi ingenti o di un patrimonio immobiliare che pochi al mondo possono vantare ma che sul fronte accoglienza, ad esempio, non è apparso in prima linea. Ai tanti mestatori che chiedono quanti rifugiati accolga il Vaticano non potrebbe rispondere qualche decisione proprio di monsignor Galantino?

È nell’intreccio tra questi due scenari che si inserisce il trasferimento di monsignor Galantino dalla Cei alla guida dell’Apsa, che gestisce sotto il controllo e l’indirizzo del dicastero dell’economia i conti interni e il patrimonio immobiliare. Per questo hanno ragione, a mio avviso, tanto quelli che parlano di promozione per monsignor Galantino, quanto quelli che parlano del contrario, o giù di lì. Il “promoveatur ut amoveatur” è un metro antichissimo, soprattutto in Vaticano è stato applicato tante volte. Ma in questo caso credo che il metro usato dal papa sia stato un altro: la gestione del personale in funzione di due riforme molto importanti. Gli apologeti sostengono che con monsignor Galantino la Cei perde una voce forte sul tema caldo dell’accoglienza. I detrattori dicono che perde un uomo che a volte decideva troppe cose in solitudine. Nessuno è perfetto, potrebbero avere ragione entrambi, ma certo le scelte politiche della Chiesa in uscita sono note a tutti, inutile pensare che il cambio della guardia alla segreteria della Cei le modifichi, se non nello stile, più o meno irruento. La Chiesa in uscita, affidata al suo presidente, non ad altri, parla il linguaggio della misericordia, dell’ospedale da campo, e parla con tutti. Parlare con tutti, i vecchi come i nuovi, è una scelta propria della Chiesa in uscita anche in politica. Purché sia chiaro che aprirsi al nuovo non vuol dire rinunciare ai propri valori, alla propria identità di ospedale da campo, di Chiesa per i poveri. A mio parere non ha capito questo chi pensa di poter usare il lavoro domenicale per accorciare altre distanze, come non ha capito questo chi si illude che dalle copertine dei libri della Editrice Vaticana spariranno il giallo e il verde per inopportunità politica. Parlare con tutti, aprirsi al nuovo, per me vuol dire non rinunciare alla sintonia con le angosce, le paure, i singhiozzi della società italiana, ma per evangelizzare quelle angosce, evangelizzare la cultura di un Paese impaurito. La teologia della Chiesa in uscita è una teologia pastorale, prima e più che dogmatica. Per fare questo serve una Curia che conosca più che il valore dei numeri quello della trasparenza e una Cei che sappia sentirsi compatta: solo la chiarezza può consentire di affrontare l’enorme sfida di evangelizzare la cultura odierna mentre si allestiscono gli indispensabili ospedali da campo. Il peccato sarebbe se ancora una volta si perdesse l’occasione di rendere la Cei uguale a tutte le conferenze episcopali del mondo, che hanno alla segreteria un prete e non un vescovo. Le voci al riguardo non sono incoraggianti, ma le voci sono voci.



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