Giovanni Tria (nella foto) è un po’ il classico uomo giusto nel posto giusto e anche al momento giusto. Il 22 giugno è una data da segnare nel calendario gialloverde. Il giorno in cui l’Europa ha trovato un interlocutore con cui parlare e persino confrontarsi, su un terreno che definire scivoloso è dire poco: la tenuta finanziaria del Paese. Per un attimo, uscendo dall’Ecofin appena concluso, il ministro dell’Economia ha fatto dimenticare settimane di dialogo tra sordi.
Da una parte Matteo Salvini e Luigi Di Maio, dall’altra quell’Europa mai così diffidente verso il governo legastellato. D’altronde il contratto gialloverde non è mai piaciuto a Bruxelles: troppo azzardato, troppo fantasioso, in due parolae pericoloso e diseducativo per l’Europa che abbiamo imparato a conoscere.
Per questo la missione di Tria era doppiamente difficile. Serviva un’iniezione di fiducia, un’overdose di sicurezza e il ministro è riuscita a darla. Non solo garantendo una correzione annua dello 0,3% sul deficit e una graduale ma costante riduzione del debito. Ma anche assicurando riforme senza costi aggiuntivi per le finanze pubbliche e per tutto il resto dell’anno. Passaggio cruciale quest’ultimo perché delinea un concetto chiave per la dialettica tra Mef e resto del governo. Il reddito di cittadinanza ha un costo a fronte di coperture poco certe, la flat tax anche, dunque almeno per il 2018, è difficile che se ne parli.
L’Europa voleva sentirselo dire e Tria lo ha fatto, guadagnandosi gli applausi e l’energica stretta di mano di Moscovici e Dombrovskis. Questo non vuol dire che tra Bruxelles e Roma non ci saranno nuove frizioni e impennate di tensione: Tria è solo una parte dell’esecutivo gialloverde anche se con ogni probabilità al momento ne rappresenta il lato autorevole e aperto alla discussione. Questo però pone Lega e 5 Stelle davanti un dilemma. Della serie, fidarsi ciecamente del loro ministro mettendogli in mano un assegno in bianco oppure correggere il tiro ogni volta che Tria si dimostrerà ai loro occhi un tantino filoeuropeo? In altre parole, prima la pancia e poi la testa oppure il contrario? Perché il problema di fondo è che mentre Tria ha trovato con facilità e disinvoltura la giusta frequenza con Bruxelles, Salvini e Di Maio la stanno ancora cercando. E non si può certo pensare di poter continuare a fare a meno dell’Unione e dei suoi richiami, non se si è, come in questo caso, un Paese fondatore.
A conti fatti Giovanni Tria rimane almeno per il momento l’unico vero ponte con l’Europa e questo è un fattore di cui tener conto. Salvini e Di Maio farebbero bene ad assecondare il loro ministro abile coi numeri e realista al punto giusto, senza essere tacciato di essere un mero ragioniere. L’alternativa è andare in rotta di collissione con l’Europa, con tutte le conseguenze del caso.