È difficile prevedere dove porterà l’”America first” di Donald Trump. Al momento quel che risulta evidente è il suo carattere contraddittorio. Ciò che gli Usa (forse) guadagneranno con i dazi, lo perderanno, e con gli interessi, a causa della tendenza del dollaro a rivalutarsi. Si dirà che non è una novità. Basti pensare a come il Presidente tratta la sua stessa Amministrazione. Collaboratori, prima assunti con tutti gli onori e poi costretti alle dimissioni. Con un carico di accuse senza precedenti. Non meno altalenante è la sua politica estera. Nei confronti della Corea del nord si è passati dalla minaccia della guerra nucleare alla luna di miele. Si dirà che alla fine i risultati si sono, comunque, visti. Ma è difficile non considerare i costi dell’erraticità di questi movimenti. Costi per il resto del mondo, ma anche per gli stessi Stati Uniti. Come mostra l’andamento di Wall Street che, proprio in questi giorni, ha azzerato tutti i guadagni di un anno, tornando al punto di partenza dello scorso primo gennaio.
Partiamo allora dall’escalation con la Cina, sui temi del commercio internazionale. La prima minaccia – dazi su un valore commerciale pari a 50 miliardi di dollari – non poteva non comportare una reazione da parte del Celeste impero. Le rappresaglie sono l’essenza stessa del conflitto. Alla risposta di Pechino, che ha usato lo stesso peso e la stessa misura, Donald Trump ha rincarato la dose, minacciando di estendere i dazi ad un paniere pari a 200 miliardi di dollari. E se Pechino oserà fiatare, la dose sarà rincarata di altrettanto. Alla fine se questa spirale non si arresterà, vi potrebbe essere la totale chiusura delle rispettive frontiere. Eppure gli esisti disastrosi della guerra del Vietnam dovrebbero essere da monito. Nelle escalation – militari o commerciali poco importa – si sa da dove si comincia, ma non si può prevedere dove si arriva. Se poi le stesse misure sono estese al Canada, al Messico ed all’Unione europea, la devastazione può assumere le caratteristiche di un vero e proprio cataclisma.
Si tratta di un pericolo reale o di una semplice minaccia? Questo ancora non è certo. Non tutti i torti, ovviamente, sono da una sola parte. Trump ha buon gioco nel denunciare l’eccesso di mercantilismo tedesco, con il suo forte attivo della bilancia commerciale, pari all’8,2 per cento del Pil. Problema antico, che risale alla notte dei tempi, quando esistevano ancora le due Germanie e Washington polemizzava apertamente con Bon e soprattutto con Francoforte, vale a dire con la Bundesbank. L’Europa tutta, quindi, farebbe bene a farsi un esame di coscienza e far sì che le richieste americane, affinché Angela Merkel si impegni per una politica di rilancio della sua domanda interna, non rimangano lettera morte. Ne beneficerebbero tutti i partner europei e non solo l’altra sponda dell’Atlantico. Ma supponiamo, che alla fine, tutto ciò rimanga un sogno, quali saranno le conseguenze per l’economia americana?
La prima sarà che i prodotti “made in Usa” costeranno di più. Sarà quindi un piccolo salasso per i consumatori americani. Quel dazio del 20 per cento sull’acciaio e del 10 per cento sull’alluminio si rifletterà a cascata su tutti i prodotti finiti che utilizzano queste materie di base. Qualcosa potranno risparmiare se i produttori interni sapranno migliorare le rispettive produzioni, contenendo i costi. Ma si tratta di processi che richiedono un tempo. Nell’immediato la protezione alzerà tutti i prezzi, consentendo alle imprese maggior margini di profitto. È quindi prevedibile che l’inflazione, che già viaggia ad un ritmo del 2,1 per cento all’anno, subisca un ulteriore incremento. Ed è allora che nascono le principali contraddizioni.
L’economia americana rischia di surriscaldarsi. Come detto, cresce l’inflazione, la disoccupazione, secondo gli ultimi dati, è inferiore al 4 per cento. Le previsioni di crescita del Pil indicano un target del 2,8 per cento per l’anno in corso. Motivi che hanno spinto la Fed ad operare una piccola stretta. I tassi di interesse, dopo un primo aumento all’inizio dell’anno, sono stati portati al 2 per cento. Con la prospettiva di giungere al 2,5 per cento nei prossimi mesi. E nuovi aumenti sono previsti per il 2019. Insomma: è l’avvio pieno del decoupling, come dicono gli esperti. Vale a dire del “disallineamento” rispetto alla politica monetaria perseguita dalla Bce. Che, come ha detto proprio in questi giorni Mario Draghi, rimarrà, invece: “paziente, persistente e prudente”. Con tassi d’interesse, almeno fino al luglio del prossimo anno, pari a zero.
Di fronte a questa prospettiva i mercati non sono rimasti con le mani in mano. Il giorno stesso dell’annuncio delle linee guide che la Fed intende seguire, il dollaro negli scambi intra-day è passato da 1,185 a 1,156, nei confronti dell’euro. Con un rimbalzo che ha pochi precedenti nella storia più recente. Frutto soprattutto dell’azione di algoritmi che operano al millisecondo. Fenomeno emotivo o di più lungo periodo? Nei giorni successivi si è verificato un piccolissimo rimbalzo che tuttavia ha superato solo di poco la barriera di 1,16. Attualmente il cambio è pari a 1,157.
Cosa ci aspetta per l’avvenire? Gli analisti ne prevedono l’ulteriore rafforzamento in un range compreso tra 1,2 e 1,12. Sulla base di un ragionamento che è difficile da contestare. La riforma fiscale, avviata da Trump, sta spingendo molte società al rimpatrio dei capitali. Di conseguenza sta aumentando la domanda di dollari. E questo, oltre al differenziale nei tassi di interesse tra le due sponde dell’Atlantico, spiega il motivo del leverage. Sarà senza conseguenze? Tutt’altro. Renderà più care le esportazioni americane verso il resto del mondo, compensando, in modo (forse) più che proporzionale i vantaggi (presunti o reali) della politica protezionista. Ma dal punto di vista politico, quest’evidente inconveniente preoccupa poco la Casa bianca. Interesse di Trump è difendere il suo elettorato dell’America profonda. Sennonché le elezioni di midterm si terranno il prossimo 6 novembre. Ed allora si vedrà se i conti sono stati fatti senza l’oste.
C’è un aspetto più generale che non va trascurato. La stretta della Fed sta determinando un fenomeno di “spiazzamento”. La curva del debito Usa si è appiattita su livelli che non si vedevano dal 2007. La differenza tra il rendimento a 10 anni (2,92%) e 2 anni (2,55%) è scesa sotto i 40 punti base. Non è un bel segnale perché a bocce ferme significa che gli investitori non credono che il ciclo economico (e di conseguenza l’inflazione) possano continuare a lungo negli Stati Uniti. Intanto alcuni operatori stanno vendendo azioni e acquistando Treasury a 10 anni che garantiscono un rendimento interessante. E se la Borsa smette di tirare, viene meno il cosiddetto “effetto ricchezza” che spinge in alto i livelli di consumo. Insomma si è innestato un fenomeno di massa di cui è difficile prevedere le conseguenze ultime. E che reca in sé una data di scadenza. Quel 6 novembre in cui tutti i nodi potrebbero venire al pettine.