L’incontro avvenuto ieri tra Donald Trump e Kim Jong-un è già considerato un pezzo di storia di questo secolo, con una grande eco mediatica, e con potenziali enormi dal punto di vista geopolitico globale.
“Dal punto di vista simbolico, il successo e il valore storico sono indubbi”, spiega a Formiche.net Francesca Frassineti, Associate Research Fellow dell’Asia Centre dell’Ispi (vive a Seul per un progetto di dottorato sulla Corea del Sud dell’Università di Bologna, e per questo il vertice lo ha respirato, oltre che analizzato).
E nei simboli si ritrovano grossi significati politici: “L’organizzazione della giornata, dalle strette di mano alle bandiere nordcoreane che sventolavano accanto a quelle a stelle e strisce, fino alla disposizione del tavolo, non si differenziava in nulla da un incontro tra i leader di due nazioni con normali rapporti diplomatici”.
È sotto molti aspetti un successo per la strategia di Kim, dunque? “Da quando è salito al potere nel dicembre 2011 è parso evidente che non fosse disposto ad utilizzare il nucleare unicamente come moneta di scambio per ottenere concessioni economiche, ma l’obiettivo principale è diventato innanzitutto quello di ottenere il riconoscimento di nazione ‘nuclearizzata‘ e di status paritario da parte degli Stati Uniti. Il trattamento concesso da Trump ieri, per esempio l’averlo chiamato ‘a talented man’ più volte, conferma ai nordcoreani di non poter più essere trattati come schegge impazzite, ma come interlocutori riconosciuti”.
A questo proposito è fondamentale guardare a come gli organi di stampa del regime hanno divulgato all’interno del paese le notizie degli ultimi giorni. Sappiamo che sui giornali nordcoreani gli eventi internazionali che riguardano il paese, vengono resi noti una volta che hanno avuto luogo e molto spesso a distanza di tempo, ci spiega la ricercatrice. “Il fatto, invece, che la prima pagina del Rodong Sinmun di ieri ospitasse un vero e proprio servizio fotografico che immortalava KJU (acronimo del satrapo nordcoreano, ndr) a passeggio per Singapore e, ancor di più, il fatto che sull’edizione successiva campeggino le foto della stretta di mano tra KJU e Trump”.
È una questione non da poco, se si considera che l’informazione in Corea del Nord è serratamente controllata dal governo, e si può pure immagine che la maggior parte dei nordcoreani vedrà, con le foto pubblicate dal giornale del partito, Trump per la prima volta. E frasi come “l’incontro si è tenuto per porre fine al rapporto di estrema ostilità tra Dprk (acronimo inglese della Repubblica democratica popolare di Corea, il vero nome della Corea del Nord, ndr) e Usa” per “aprire a un futuro nuovo nell’interesse dei due popoli per la pace e la prosperità del mondo”, indicano che il leader nordcoreano vuole che il suo messaggio circoli in fretta all’interno del paese ai fini di una costante legittimazione interna.
E oltre il denso simbolismo, la sostanza: “La creazione di un rapporto personale tra i due leader; l’adozione di una dichiarazione di principi di base che riecheggia i testi sottoscritti dai due attori nel passato, a partire dall’accordo congiunto del 1993; la definizione del primo passo verso una ‘penisola coreana libera dal nucleare‘, riconfermando così la terminologia utilizzata dalle due Coree nella Dichiarazione di Panmunjom del 27 aprile scorso”.
Frasinetti spiega che il testo della dichiarazione congiunta non poteva non essere imperfetto, perché tutto è stato organizzato in fretta (a pensarci, normalmente il faccia a faccia fra leader è la parte finale di elaborati negoziati, qui, nota l’analista, è stato il momento che dovrebbe dar il là alla fase futura) e non poteva non presentare un linguaggio vago e volutamente debole che rinviasse la definizione della maggior parte delle questioni ai successivi incontri. Su tutti, il nodo della decnuclearizzazione: Trump in conferenza stampa ha calcato sul fatto che il regime ha confermato l’intenzione (e avrebbe fatto passi concreti a sostegno di questo), ma “non vi è alcun impegno esplicito” nel documento.
“L’effetto sorpresa c’è stato, però, ed è avvenuto in conferenza stampa”, dice l’analista Ispi: “Trump ha riaffermato la volontà di ritirare le truppe USA dalla regione per ridurre i costi che questa presenza impone ai cittadini americani, benché non sia questo il momento per farlo, ma soprattutto ha annunciato che Usa e Corea del Sud sospenderanno le esercitazioni militari congiunte fino a quando ‘le parti continueranno a dialogare‘“.
Si tratta di una concessione unilaterale enorme che viene fatta al regime nordcoreano, e in più, “Trump pare abbia riconosciuto il carattere provocatorio e minaccioso che queste esercitazioni hanno per Pyongyang, che le ha sempre considerate come la preparazione di un’aggressione imminente ai suoi danni”.
Come la vede Seul? “Per quanto riguarda l’alleanza americana con la Corea del Sud, niente è in discussione, e ciò è garantito dallo strabiliante lavoro diplomatico condotto da Moon Jae-in che si trova a dover bilanciare la ripresa del dialogo tra le due Coree e il mantenimento del sostegno di Washington. E sebbene del successo del summit di ieri sia da attribuire al presidente sudcoreano, l’unico attore che a fronte dei continui alti e bassi nel rapporto tra Usa e Corea del Nord ha sempre operato per infondere stabilità e coerenza al processo diplomatico e per costruire fiducia tra le parti, lo stesso Moon anche ieri ha ribadito che tutto il merito deve essere riconosciuto a Trump”.
Perché Moon ha fatto questa specie di passo laterale? “Questa modalità è ascrivibile alla necessità di conservare il pieno sostegno dell’alleato americano affinché la politica della Casa Blu nei confronti di Pyongyang possa avere successo, memore di quanto i dissidi tra Seoul e Washington all’epoca della presidenza di Roh Moo-hyun (2003-2007) avessero affossato la politica di engagement sudcoreano”.