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E ora il caso Zte fa litigare Trump e il Senato

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La Casa Bianca si oppone a una proposta del Senato per bloccare l’accordo con cui il presidente Donald Trump ha ridato ossigeno alla compagnia di telecomunicazioni cinese Zte (e forse respiro ai trade talks con la Cina). L’azienda era stata precedentemente posta sotto misure punitive indirette (le ditte americane non potevano venderle componentistica fondamentale per i propri prodotti) per aver tenuto rapporti commerciali con Iran e Corea del Nord, sotto sanzioni, a cui avevano venduto tecnologia Made in Usa.

Accettando l’accordo con il dipartimento del Commercio, la Zte ha ammesso le proprie responsabilità (formalmente: non aver punito adeguatamente i quadri dirigenti coinvolti nei traffici illeciti iraniani e nordcoreani) e accolto il pagamento di una multa salatissima (da un miliardo di dollari) e di cambiare la sua leadership amministrativa: in cambio il governo degli Stati Uniti revocherà il divieto.

L’amministrazione ora sta lavorando con i leader del Senato di entrambi gli schieramenti per cambiare la semantica inclusa in un progetto di legge di autorizzazione alla difesa che la Camera alta dovrebbe passare questa settimana, ha ammesso il direttore degli affari legislativi della Casa Bianca, Marc Short.

I senatori hanno incluso l’emendamento per fermare l’accordo con Zte in una legge sulla difesa ampiamente sostenuta, che dovrebbe passare questa settimana. La disposizione su Zte ha attirato il sostegno bipartisan da parte dei legislatori, che hanno avvertito che aiutare l’azienda cinese comporta rischi per la sicurezza nazionale.

La Camera invece ha già approvato la sua legge sulla difesa separatamente senza i riferimenti a Zte, che i senatori vogliono colpire sulla base di considerazioni già note: le intelligence americane credono che Zte, come Huawei, abbia nei propri prodotti delle backdoor da cui i servizi segreti cinesi possono penetrare nei sistemi (anche sensibili) statunitensi – per questo, per esempio, i dipendenti del Pentagono non possono comprare smartphone di queste due aziende.

L’amministrazione preferisce nettamente la legislazione passata alla Camera, secondo Short: e forse il motivo è da ricercare in ciò che rappresenta la vicenda Zte. Partita come uno dei sistemi punitivi più duri che Trump aveva deciso contro una ditta cinese, era arrivata a mostrare le debolezze di Pechino – la ditta senza tecnologia americana non può operare, ed è sulla base di certe consapevolezze che il presidente Xi Jinping pretende che le ditte cinesi raggiungano un’ampia indipendenza entro il 2025. Poi ha il retrofront del presidente, fino all’accordo.

Zte è diventata il proxy a cui agganciare parte dei negoziati commerciali, per ora congelati, tra Cina e Stati Uniti; quelli con cui Trump vorrebbe raggiungere in qualche modo l’abbassamento del deficit import/export sofferto col Dragone, e da cui Pechino vorrebbe uscire meno abbozzata possibile, magari mantenendo tutto il suo sistema economico-commerciale intatto.

“Il presidente ritiene che la Cina abbia contribuito in modo determinante ad arrivare a questo punto sulla Corea del Nord”, ha detto Short citato dal Wall Street Journal (che per primo ha coperto la notizia): ed ecco che i dossier si intrecciano. La Cina sta giocando un ruolo centrale nella gestione del dossier Pyongyang, perché niente nel Nord si muove senza il consenso di Pechino: e Washington lo sa, nonostante i trionfanti risultati sbandierati dal vertice trumpiano con Kim Jong-un.

Ma le relazioni con la Cina vanno a intermittenza trumpiana: c’è l’accordo su Zte, ci sono i plausi per il lavoro di sostegno offerto sull’incontro di Singapore (Trump è tornato a chiamare Xi “un amico” dopo il summit con Kim), ma ci sono anche le notizie che escono su una possibile lista di prodotti cinesi messi sotto dazi americani entro venerdì o al massimo la prossima settimana (ne parlano Politico e il WSJ attraverso fonti informate sulle deliberazioni interne, ma anche il presidente ne aveva fatto cenno in una conferenza dopo il meeting di Sentosa, dicendo che praticamente si trovava “costretto”, “non ho chance”, a mosse aggressive contro la Cina).

Poi ci sono le beghe interne, le spaccature con il partito e la polarizzazione secca con i democratici. I primi aspettano la resa dei conti alle mid-term, gli altri lavorano con un’opposizione quasi ideologizzata, in difficoltà sulla costruzione di un’adeguata piattaforma politica. Il lavorio per rivedere quel contenuto della legge crea un altro possibile disaccordo tra Trump e i repubblicani al Senato, a sostegno di uno dei pochi sforzi del partito per controllare il presidente, fa notare la Nbc.
Il senatore Bob Corker , repubblicano dal Tennessee piuttosto critico con Trump, ha già espresso frustrazione questa settimana “dopo che il suo partito gli ha impedito di avanzare una misura per verificare la capacità di Trump di imporre tariffe alle importazioni”. È la vicenda dei dazi, quella che ha creato spaccature con gli alleati occidentali, come il Canada e l’Europa, arrivate fino al G7.
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