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Di Maio e il caso Bekaert (la ricreazione è finita). È questa l’Europa che vogliamo?

I fatti sono di una disarmante (e tragica) semplicità. Il 22 giugno il quartier generale del gruppo Bekaert (a prevalente capitale belga, che esprime il presidente Bert De Graeve, mentre l’amministratore delegato è inglese, Matthew Taylor) comunica la chiusura (fra 75 giorni, con crudele sovrapposizione alle vacanze estive) dello storico stabilimento toscano del gruppo, attivo da decenni e acquistato dal gruppo Pirelli cinque anni fa.

La situazione dava già da qualche mese segni di deterioramento, visibili, tanto per fare un esempio, quando l’azienda decide ad aprile di non rinnovare 23 contratti di lavoro interinale. La motivazione è la più ovvia, semplice e disarmante, vale a dire costi di gestione (e del personale) troppo alti, come espresso chiaramente dal comunicato ufficiale che recita così: “The competitive position of the Figline entity has been under pressure in recent years. Due to a significantly higher cost structure compared with other Bekaert rubber reinforcement plants in EMEA, the plant has not been able to generate a financially sustainable performance”.

Dunque l’azienda chiude (scompaiono 318 posti di lavoro) non per mancanza di ordini, ma perché sposta le sue produzioni in luoghi più redditizi. E quali sono questi luoghi?

Innanzitutto (ed è perfettamente comprensibile) nei nuovi mercati in espansione, tra cui quello del gigante Brasile, la seconda economia del continente americano. Anche qui ci viene in soccorso un comunicato ufficiale (del 20 giugno, ironia della sorte): “The management of Belgo Mineira Bekaert Artefatos de Arame Ltda  (BMB), a 55.5/44.5% joint venture of ArcelorMittal and Bekaert, have announced their expansion plans for the Itaúna plant in Minas Gerais, Brazil. 

In order to further strengthen their leading position in the Latin American market and to drive manufacturing excellence in the rubber reinforcement activities, BMB will install half product capacity and become a fully integrated manufacturing entity. In addition, 35% tire cord production capacity will be added to enable BMB to grow their current market share in the region. The USD 33 million investment will be spread over three years and includes construction and infrastructure works and the installation of machines designed and assembled by Bekaert Engineering. The expansion program will add some 200 direct and indirect jobs in the region”.

Insomma 33 milioni di dollari di investimento in Brasile con 200 nuovi posti di lavoro. Ci sta, perché da quelle parti c’è molto da fare, c’è una popolazione giovane ed in espansione numerica, alla ricerca di un migliore tenore di vita. Però c’è anche un secondo aspetto da considerare, emerso progressivamente negli ultimi due anni e testimoniato da molti lavoratori della Bekaert stessa.

Ed è la inflessibile attuazione di una strategia di spostamento delle produzioni italiane verso stabilimenti a costi più bassi ma comunque nel continente, nello specifico in Romania e Slovacchia. Due paesi della Ue, accolti nell’ultima grande ondata del 2004-2007, che aggiunge 12 nuovi aderenti alla grande famiglia europea.

Ecco allora che la vicenda assume contorni diversi e ci impone amarissime considerazioni e lancinanti domande su quello che siamo, avremmo dovuto essere, vorremo diventare. Cos’è quest’Europa se un’azienda Ue (belga) chiude stabilimenti UE (italiani) distruggendo lavoro UE (italiano) per crearne di nuovo UE (slovacco o romeno)?

Si potrebbe rispondere “è la concorrenza”. Le commesse vanno a chi è più efficiente, competitivo, moderno. Ma le cose non stanno così, che piaccia o no ai papaveri di Bruxelles. Romania e Slovacchia sono state aiutate dagli altri Paesi ad entrare in Europa, in quella storia ci sono anche i soldi del contribuente italiano.

La Bekaert si è giovata dell’espansione della Ue ed anche questo è avvenuto con i soldi degli italiani (tanto bistrattati). Il risultato finale però è che questa Europa non riesce (e non vuole) impedire questa devastante concorrenza interna, che sta avvelenando i cuori e le menti dei cittadini di tutti i Paesi membri, ormai esasperati e portati a votare sempre più spesso per movimenti di protesta.

Senza strumenti correttivi è ovvio che a pari condizioni fiscali, amministrative e commerciali un’impresa va a produrre dove costa meno. E siccome il costo della vita in Slovacchia e Romania è più basso che in Italia ecco che il cerchio si chiude.

Questa Europa di fatto incoraggia ogni forma di concorrenza interna (spacciandola per stimolo al libero mercato), lasciando alle imprese (come la Bekaert) di scegliere ad esclusivo vantaggio dei bilanci, delle trimestrali tanto care alla finanza internazionale, dei bonus assegnati ai manager che chiudono impianti. E allora viene da chiedere ad alcuni italiani se hanno qualcosa da dire in proposito.

Il primo è il ministro Di Maio, competente due volte (Lavoro e Sviluppo Economico). Come pensa di agire, dentro e fuori i confini nazionali? Invece di sbandierare amenità (come i 30 minuiti di connessione internet) o cincischiare tra varie versioni del decreto “dignità” non converrebbe dedicarsi alle cose serie e urgenti?

Non è forse questo il tema dei temi da porre in sede europea, atteso che quello dell’immigrazione è ormai definitivamente chiaro che dovremo smazzarcelo da soli? La luna di miele si sta esaurendo, i nuovi governanti (arrivati al potere con una certa baldanza) debbono mostrare di che pasta sono fatti, a cominciare dal “capo politico” del M5S.

Poi, certo, dovremmo fare qualche domanda anche a Prodi, Draghi, Tajani, Mogherini, Renzi, Calenda e, ovviamente, Conte e Salvini. Ma questa partita è in mano a Di Maio, la ricreazione è finita.



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