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Perché Boeri alimenta la crisi prematura dell’alleanza gialloverde

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Tito Boeri insiste. E Matteo Salvini non gliela manda a dire. Mentre Luigi Di Maio si defila, per quanto possibile, dalla contesa. Ormai tra i due è polemica continua. Un grand commis de l’état contro il ministro dell’Interno, nonché vice presidente del Consiglio dei ministri. Una cosa imbarazzante per chi, come noi, è abituato a distinguere tra un ruolo tecnico e il primato della politica. Che può anche non piacere. Peccato, però, che questo sia scritto sulle grandi tavole della legge, che regolano il funzionamento delle istituzioni.

Cosa c’è dietro tanta insistenza? Comportamenti, per la verità, non nuovi da parte dell’attuale presidente dell’Inps. Uomo dalla facile esternazione. Solo che in passato il ministro del Welfare era Giuliano Poletti: persona fin troppo mite nel carattere. Oggi invece la polemica è con il leader della Lega. Grazie alla cui determinazione quel Partito è risorto dalle ceneri. Come la fenice. Ed ecco allora il sospetto, appena sussurrato nei salotti della politica. Non è solo un eccesso di protagonismo. L’obiettivo é quello di contribuire alla crisi prematura dell’alleanza giallo – verde. Per sostituirla con l’antico sogno di Pier Luigi Bersani: l’abbraccio tra una sinistra, nuovamente unita, e il Movimento 5 Stelle.

Saranno pure fantasie, ma la dimensione tutta ideologica del presidente dell’Inps, in qualche modo le alimenta. Insiste nel dire che l’Italia ha bisogno di immigrati. Poi, quasi sottovoce, aggiunge “regolari”. Motiva la sua posizione facendo ricorso ai numeri: il calo demografico, gli squilibri futuri del sistema pensionistico italiano. Dati oggettivi. Sennonché, molto spesso, gli economisti – e Tito Boeri lo è di rito bocconiano – sono portati a nascondere una realtà, molto più complessa, che i numeri nascondono. L’economicismo del marxismo del bel tempo andato.

L’equazione che Boeri pone alla base del suo ragionamento è addirittura banale. Vi sono dei lavori che gli italiani non vogliono fare. I migranti possono tappare i relativi buchi. Se fosse così semplice, non avremmo quelle migliaia di persone che vagano nelle città, chiedendo le elemosina nei mercati o davanti ad ogni esercizio commerciale. Delle due l’una: o questi posti non sono così disponibili o gli immigrati non ne vogliono sentir parlare. Comunque la dimostrazione che avere immigrati “regolari”, con tanto di contratto di lavoro, è molto più difficile di quanto non risulti da un semplicistico calcolo numerico.

Per ottenere un simile risultato la prima condizione è la conoscenza della lingua. Quindi una formazione mirata verso il possibile futuro impiego. Nei cantieri del Nord mancano saldatori. Ma è difficile assumere qualcuno se questi non comprende l’italiano è non ha appreso i rudimenti del mestiere. Si tratta di semplici pre-requisiti. La vera sfida è quella del rispetto generale delle regole e dei valori, che sono tipici di ogni Paese. Le culture di origine vanno bene, ma solo se non sono configgenti. Altrimenti il corto circuito – lo si è visto in Germania durante l’ultimo capo d’anno – diventa inevitabile.

Come si può vedere non è lo spontaneismo che risolve il problema. Le relative soluzioni richiedono una specifica organizzazione che ha un costo tutt’altro che marginale: dalla selezione iniziale, alla logistica, fino alla formazione ed all’inserimento nel mondo del lavoro. Uno schema che non può convivere con un’immigrazione à la carte. Chiunque vuole tenta la traversata e, se gli va bene, stacca il biglietto della lotteria. Perché, come nel caso della moneta, è quella cattiva che scaccia quella buona. Teorema ben conosciuto agli economisti. Ma che Tito Boeri, per ragioni misteriose, non sembra voler considerare.

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