Skip to main content

Decreto dignità? Dirigismo puro. Un salto indietro di almeno trent’anni

di maio

C’è chi dice che in Italia, al momento, esiste una specie di trinità governativa, costituita dalla Lega di Matteo Salvini, i 5 stelle di Luigi Di Maio, e da Giuseppe Conte, il presidente del Consiglio che, di volta in volta fa sponda sui tecnici (Moavero e Tria) e sul Presidente della Repubblica. Lo si è visto chiaramente a proposito di chi voleva imporre dazi per preservare il buon nome della produzione italiana. L’intervento del ministro dell’agricoltura Gian Marco Centinaio ha fatto, per fortuna, naufragare il progetto. Grazie anche al sostegno del presidente del Consiglio e di Sergio Mattarella. Succederà qualcosa di simile a proposito del decreto legge dignità? Titolo non solo eccessivamente enfatico, ma fuori luogo. La dignità appartiene al lavoratore e non alle forme contrattuali che ne disciplinano la prestazione. Del resto è più dignitoso un contratto a termine o il baratro della disoccupazione? Esito inevitabile quando si cerca di creare occupazione per legge. Cosa che, com’è noto, non riuscì nemmeno al tempo di Stalin.

La verità è che la doppia anima di questo Governo è emersa con una chiarezza tutt’altro che sorprendente. La lunga faticosa costruzione del “contratto per il governo del cambiamento” aveva in sé tutti i presupposti necessari. Da un lato la giusta propensione produttivistica della Lega, dall’altro l’idea di una decrescita felice da realizzare grazie ad una colossale redistribuzione del reddito che penalizza il merito e l’impegno individuale, di cui il decreto è figlio legittimo. Le clausole inserite nel testo di legge – le cosiddette causali che possono giustificare l’eventuale proroga del contratto – sono quelle che, a suo tempo, erano indicate dalla CGIL. Se il decreto verrà convertito, il giudice del lavoro dovrà mettere il naso nella complessa organizzazione aziendale. Vedere cioè se le esigenze, indicate dall’azienda, siano: a) temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività del datore di lavoro, nonché sostitutive; b) connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili dell’attività ordinaria; c) relative a lavori stagionali e a picchi di attività stagionali individuati con decreto del ministro del Lavoro e delle Politiche sociali. Insomma: dirigismo puro. Un salto indietro di almeno trent’anni.

Negli anni ’70, irrigidire il mercato del lavoro fu una costante dell’azione sindacale. Si puntava ad una crescita degli investimenti – le cosiddette innovazioni di processo – in grado rendere possibile una maggiore occupazione con un rendimento accettabile del capitale investito, ottenuto grazie all’aumento della produttività aziendale. Funzionò per un breve periodo, data la struttura di tipo fordista della produzione. Poi a partire dagli anni ’80, quella formula si dimostrò illusoria. Benché l’Italia avesse a disposizione l’arma della svalutazione monetaria, in grado di ridisegnare il quadro macroeconomico per ripartire tra tutti il costo di quelle rigidità. Utilizzando lo strumento dell’inflazione. L’avvento del nuovo paradigma tecnologico, che ha segnato il cammino della globalizzazione, ha riposto in soffitta quelle vecchie regole. Oggi: irrigidire il mercato del lavoro, significa operare in contrasto con il mondo della flessibilità tecnologica ed organizzativa. Con il bel risultato di creare maggiore disoccupazione. Una nuova eterogenesi dei fini.

La dimostrazione l’abbiamo nell’esame della struttura del mercato del lavoro di tutti i Paesi più avanzati. In generale il livello di occupazione a tempo indeterminato, in Italia, è superiore a quello degli altri Paesi europei. Se poi consideriamo gli oltre 3 milioni di dipendenti pubblici, con le loro accresciute rigidità, il confronto è sconcertante. L’Italia resta, per molti versi, la patria di un socialismo che non ha riscontro in nessun altro Paese. Cina compresa, la cui organizzazione produttiva si connota in senso opposto. Del resto era stato Deng Xiaoping, l’artefice della rivoluzione cinese, a teorizzare che “socialismo non poteva significare amministrazione della miseria”. Se si guarda alla Germania, esistono i minijobs (circa 5 milioni di persone), nei Paesi Bassi il part-time è molto più diffuso. Francia e Svezia hanno una percentuale di lavoratori a tempo indeterminato inferiore a quella italiana.

E la Francia, per restare in tema, non è l’Italia. Non ha la struttura polverizzate delle piccole e piccolissime imprese. Quattro o cinque dipendenti, che rappresentano oltre il 90 per cento dell’intero universo. È soprattutto contro queste ultime che è rivolto il cosiddetto “decreto dignità”, com’è emerso dalle prese di posizioni di tutte le organizzazioni imprenditoriali. Di Maio, in proposito, ha realizzato un piccolo miracolo, unendo tutto il mondo della produzione – da Confindustria agli artigiani – quasi sempre diviso e contrapposto, nella critica feroce al testo del provvedimento. Riuscirà indenne dal dibattito parlamentare? Non sapremo dire. L’unica certezza è che le strade tra la Lega ed i 5 Stelle, in queste circostanze, nonostante la buona volontà di Matteo Salvini, non sembrano andare nella stessa direzione. Vi sarà la necessaria mediazione? È possibile. Certo è che rispetto alle prime intenzioni, continuamente pubblicizzate da Di Maio, il testo licenziato dal Consiglio dei ministri appare notevolmente ridimensionato. Molte le norme – come quelle relative ai riders – direttamente riposte nel cassetto.

L’ultima chicca è la lotta contro le aziende che delocalizzano, dopo aver beneficiato di contributi statali. Si può essere in disaccordo dal punto di vista etico? Certo che no. Ma purtroppo la logica del mercato è un po’ diversa. Forse lo Stato, dopo anni di cause civili, riuscirà ad ottenere qualche cosa. Ma nel frattempo quanti investitori esteri piuttosto che impiantare nuove aziende in Italia, si saranno rivolti altrove?


×

Iscriviti alla newsletter