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La Turchia ed il suo presidentissimo Erdogan. Analisi di un nuovo corso

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Doveva esserci una grande festa, ma è stato costretto a ridimensionarla, per il dispiacere dei 10mila invitati, a causa di 24 morti del disastro ferroviario in Tracia di domenica, di cui si ignorano ancora le cause e non si esclude il terrorismo.

Eppure da ieri, piaccia o no, la Turchia non è più ufficialmente la stessa. La Repubblica parlamentare ha assunto definitivamente i connotati di una Repubblica presidenziale forte, dove il padrone è uno solo, anche se, nei fatti, lo era già da tempo: Recep Tayyip Erdogan. Da ieri lo è anche per la Costituzione, la stessa sulla quale ha giurato alla Tbmm, la Grande Assemblea Nazionale.

La Turchia e la scena globale hanno quindi un nuovo uomo solo al comando, cosa della quale, per eccesso di offerta, proprio non si sentiva il bisogno. Non più per ambizione personale, ma di diritto, imposto con un referendum sul quale piovono dubbi di brogli da tutte le parti ed elezioni che l’opposizione è stata costretta a riconoscere come valide. Perché, nonostante l’ottima affermazione del suo candidato, Muhammer Ince, la conferma personale di Recep Tayyip Erdogan decreta che ci sono ancora almeno 20 milioni di persone che si fidano solo di lui e che dall’altra parte gli interlocutori sono troppi per trovare un compromesso.

Parte così il secondo mandato di Erdogan presidente, il primo della nuova era, che lo porterà dritto al 2023, primo centenario della Repubblica turca. Nonostante i riferimenti di facciata al padre dello Stato moderno e laico, Mustafa Kemal Atatürk, all’atto pratico, la sua azione politica dal golpe fallito del 2016 sembra andare in senso opposto.

L’islamizzazione della scuola è una realtà sempre più consolidata e, per quanto Erdogan abbia promesso la fine dello Stato di emergenza e la restituzione del passaporto alle 181mila persone coinvolte nel fallito golpe, i primi provvedimenti sembrano andare in senso opposto. Domenica sulla Gazzetta Ufficiale sono stati promulgati altri 18.500 licenziamenti di impiegati pubblici. In questo momento in Turchia ci sono circa 78mila persone in carcere e circa 150mila sollevate dai propri uffici, tutti con accuse relative al terrorismo, di matrice curda e gulenista.

Anche la formazione del nuovo governo, il primo senza il presidente del consiglio, non lascia ben sperare. Erdogan aveva annunciato la presenza, per la prima volta, di un esecutivo formato da soli tecnici. La politica nella squadra è entrata, non a sua insaputa, nei ministeri chiave. Agli interni resta il fedelissimo Süleyman Soylu. Agli esteri rimane il più che fedelissimo, e malleabile Mevlüt Çavuşoğlu. Alla difesa arriva niente meno che il numero uno delle Forze Armate, Hulusi Hakar, fedelissimo con riserva da parte di alcuni, ma che di sicuro adesso con questa nuova nomina è legato al presidente mani e piedi. L’incarico più interessante è sicuramente quello alle Finanze. Dopo aver silurato Mehmet Simsek, forse non fedelissimo, ma preparato e in grado di tranquillizzare i mercati internazionali, è arrivato al dicastero, in diretta da quello dell’Energia, il genero del presidente, Berat Albayrak, a sottolineare come, ormai, la Turchia sia un affare di famiglia. Sparisce il ministero per l’Europa e anche quello per la famiglia, incluso in quello per il lavoro. Meno persone, quindi ufficialmente più risparmio, ma sempre più vicine al presidente. Che, però, secondo gli analisti, non sarebbe ancora sazio e vorrebbe anticipare il voto amministrativo a inizio 2019.

Ad applaudirlo, ieri, c’erano importanti esponenti dei Balcani, dell’Asia Centrale e anche il presidente russo, Dimitri Medvedev. La Ue e gli Stati Uniti erano rappresentati solo dagli ambasciatori, con l’eccezione del primo ministro ungherese, Victor Orban, amico personale di Erdogan. Segno che, se per la Turchia le cose sono destinate a peggiorare, si mette male anche per l’Occidente.



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