L’Unione Europea, così come l’abbiamo conosciuta dai Trattati di Roma in poi, è stata un lento e progressivo cammino di integrazione tra Stati nazionali, culminato in due risultati fondamentali: l’unione monetaria e il Trattato di Schengen.
Con l’euro i Paesi aderenti hanno accettato la sovranità della Bce, rinunciando alla propria, con Schengen hanno rinunciato a controllare i propri confini accettando la libera circolazione interna e un unico confine esterno.
Per molto tempo, e ancora oggi, il primo dei due obiettivi è andato soggetto a forte contestazione. Di fatto, ben si sa, Paesi come l’Italia non dotati di materie prime ingenti e vocati all’esportazione hanno subito la perdita di potere delle proprie banche nazionali, perché, avendo perduto la propria moneta, hanno anche dovuto abbandonare la svalutazione, un’opzione risolutiva nei momenti recessivi.
La contestazione dei Paesi membri al secondo obiettivo è divenuta cruciale, invece, quando i processi di immigrazione incontrollata hanno spinto, prima parzialmente poi in modo sempre più deciso, le nazioni non dotate geograficamente di confini esterni all’Unione a riattivare gli antichi confini. Ovviamente i Paesi frontalieri, con confini marittimi, sono quelli che più hanno sofferto questo processo unilaterale di secessione, anche perché l’Italia, in modo particolare, ha una morfologia a stivale estremamente vasta che rende favorevole gli arrivi incontrollati e complessa la loro difesa.
D’altronde, tutti i governi popolari e socialisti dell’Unione hanno sottovalutato questo fenomeno, in realtà pensando che comunque alcune nazioni come l’Italia, avendo accettato di essere subalterne politicamente ad altri Stati più ricchi e forti, avendo un debito ricattabile e poca risolutezza decisionale, avrebbero subito, in nome di un europeismo idealizzato ed elevato a dogma, di diventare il luogo periferico del continente. Così come, in definitiva, le banlieu o le periferie sono il luogo metropolitano in cui si creano nelle grandi città i quartieri degli immigrati, così l’Italia, la Grecia e la Spagna avrebbero dovuto essere i Paesi dove si ferma l’immigrazione esterna all’Unione.
Da Capalbio fino a Berlino, passando per Parigi e Roma, il problema immigrazione non riguarda i centri storici, non riguarda i privilegiati luoghi di villeggiatura, ma i poveri, ossia coloro su cui i problemi di un’integrazione impossibile finiscono per essere scaricati. Lo scaricabarile è identico anche a livello statuale.
Questo è stato l’errore più pesante dell’europeismo progressista. In tanto perché una nazione non è una città, e l’integrazione è un processo lento che riguarda tutti e non soltanto alcuni, non potendo essere accelerato artificialmente senza creare razzismo, xenofobia e poi terrorismo. Carl Schmitt spiega, nella Dottrina della costituzione, che “lo Stato è l’unità politica di un popolo in un territorio chiuso”. Questa definizione può essere abbandonata solo se si supera la realtà stessa degli Stati, che, in effetti, nel medioevo, ad esempio, non c’erano. Ma se, viceversa, i popoli non vogliono abdicare alla propria sovranità nazionale, e fanno bene a non farlo, e se l’Europa riafferma al suo interno confini particolari, allora l’Europa progressista è già morta.
La domanda vera adesso è la seguente: può esistere un’Europa diversa oppure dobbiamo ritornare a soggetti nazionali chiusi, magari perfino in guerra tra loro?
Ancora non si è in grado di dare una risposta politica a questa questione, tutto è possibile, sebbene sia questa la sfida vera che le forze conservatrici globali, la cosiddetta Lega delle Leghe, dovrà affrontare.
In realtà, non soltanto un’Europa diversa è possibile, ma essa deve partire proprio da una concezione federale dei popoli, compatibile perfino con la sopravvivenza dell’unione monetaria, ma certamente non con il Trattato di Schengen, ormai decaduto, e non senza riaffermare con forza la sovranità delle nazioni componenti. Il modo per farlo è considerare l’Europa un luogo culturale condiviso, in cui si pratica la politica estera tra nazioni sovrane. Dunque bisogna concepire l’Unione come sussidiaria agli Stati, e magari guidata anche da una struttura istituzionale snella con a capo un presidente eletto a suffragio universale da tutti i cittadini europei.
L’Europa conservatrice non è necessariamente anti-europea, è soltanto contraria ad indebolire le sovranità nazionali. Tutto ciò deriva dall’idea che la singola persona è il fine comunitario della politica generale, e non viceversa. D’altronde se Europa è, Europa sia. Ma non basta avere un potere autolegittimato dai governi per superare la storia e i suoi tempi, nonché per cancellare una tradizione del Vecchio continente il cui vertice è l’interstatualità, e non il superamento ideologico delle comunità naturali, molto pericoloso e tendenzialmente antidemocratico. È sempre la politologia a ricordarci che i soggetti del potere democratico sono i popoli, e non un’astratta umanità omogenea che non esiste nella realtà se non attraverso i diversi popoli determinati, in cui tale tratto universale e comune di umanità si realizza specificamente, particolarmente e differentemente.