Premio Pulitzer per il miglior giornalismo internazionale nel 2015, per aver raccontato come nessun altro il dramma dell’Ebola nell’Africa occidentale, giornalista di punta del New York Times dal 2004, prima come corrispondente dalla Casa Bianca e poi dal Pentagono. Prima ancora editorialista per il Wall Street Journal, dove dal 1992 al 1997 scriveva di politica estera e commercio dagli uffici di Washington e Atlanta e che dal 1999 al 2002 l’ha inviata a Londra per capirne di più di quella strana creatura tutta europea che era la nascente unione monetaria.
Sono solo alcuni degli highlights della brillante carriera di Helene Cooper, scappata tredicenne con la sua famiglia da Monrovia, in Liberia, per cercare rifugio negli Usa, dove studierà per raccontare al mondo storie come la sua, diventando una delle giornaliste più brillanti del Paese.
Abbiamo avuto la fortuna di incontrarla a margine di un evento tenutosi al Centro Studi Americani, dove Cooper ha dialogato con Maurizio Caprara sul rapporto tra informazione e difesa nell’era delle nuove tecnologie e delle minacce ibride, e abbiamo approfittato per farle qualche domanda su come sta cambiando il suo ruolo di giornalista.
Dottoressa Cooper, nell’era dell’Information warfare, in cui tantissimi attori diventato provider di informazioni e la quantità di notizie che circola è aumentata in maniera esponenziale, come è cambiato il suo lavoro?
Sicuramente dobbiamo agire molto più velocemente ed è più difficile, perché allo stesso tempo bisogna essere veloci ma anche accurati. Prima avevi tutto il giorno per scrivere una storia o per intervistare delle persone, oggi non è più così, bisogna produrre tutto più in fretta. Tutto ciò rende il nostro mestiere molto più complicato. C’è una vera e propria corsa per essere veloci, per essere i primi a dare una notizia e inevitabilmente è più facile incappare in errori e imprecisioni. A volte ho l’impressione di non avere neanche il tempo per riflettere. È necessario trovare un equilibrio tra la velocità e la qualità del giornalismo.
Come fa il buon giornalismo a vincere la battaglia contro le fake news?
Scrivendo correttamente. Anche nel passato i giornalisti scrivevano cose sbagliate. La differenza è che se nel passato si commettevano degli errori, le persone semplicemente se ne accorgevano e smettevano di leggere l’articolo. Oggi invece anche l’errore è diventato un atto politico, che chiamiamo appunto ‘fake news’. Se dovessi indicare la differenza più grande del giornalismo di oggi rispetto a quello di ieri è che anche argomenti che non avevano nulla a che fare con la politica oggi sono estremamente politicizzati e si prestano a manipolazioni di sorta.
E invece qual è stato l’impatto che Trump ha avuto sul giornalismo e sulla comunicazione in generale?
Twitta anche alle quattro di mattina! Ormai io mi sveglio la mattina e la prima cosa che faccio è prendere il cellulare per vedere se ha scritto qualcosa. Fatichiamo veramente a stargli dietro, va a un ritmo impressionante.E pensare che non mi occupo neanche specificatamente della Casa Bianca! Quando ero corrispondente dalla Casa Bianca con Obama il nostro team era composto da quattro persone, ora sono sette e non è mai abbastanza, se stessi ancora lì sinceramente non so se sarei in grado di tenere il ritmo!
Venendo al settore di cui si occupa ora, quello della difesa. In Europa è sempre più difficile e impopolare, sia per i politici che per i giornalisti, scrivere e parlare di questi temi perché l’opinione pubblica se ne disinteressa e preferisce concentrarsi quasi esclusivamente sui temi più prettamente economici, accade la stessa cosa negli Usa?
Gli americani sono diversi, amano i loro soldati, sono molto più patriottici, direi aggressivamente patriottici. Penso quindi sia più facile negli Usa occuparsi di questi temi perché non c’è lo scetticismo che c’è in Europa attorno all’esercito e la difesa. Personalmente, visto che sto scrivendo di soldati americani che vanno in guerra, sento che il mio lavoro è a volte anche quello di sfidare il governo e il Pentagono, ma di essere sempre la voce dei soldati. Anche qui bisogna trovare un equilibrio. Si può essere in disaccordo su alcune scelte e alcune operazioni, ma bisogna conservare l’umanità per quegli uomini e quelle donne che rischiano la vita combattendo per la patria.