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Da leader del Movimento a capo della coalizione. Di Maio cerca la quadra

La tensione nel governo è fortissima, questa è la condizione “psicologica” con cui si apre la settimana. Lo è per due ragioni ben distinte e pesanti come un macigno, che nessuno può ignorare, sminuire o archiviare con facilità.

La prima è legata all’impressionante potenza di fuoco messa in campo da Matteo Salvini in queste settimane (registrata nei sondaggi in modo clamoroso), che rende però il leader della Lega nonché ministro dell’Interno inviso un po’ da tutti. Non lo amano (ovviamente) a Bruxelles, ma anche a Roma si fa lunga la lista di quelli che sperano in un suo rapido ridimensionamento, dentro il Parlamento (FI, Fd’I, Pd, ala sinistra del M5S) e fuori da esso (Quirinale e più in generale vertici delle burocrazie civili e militari, gran parte della magistratura, gran parte della stampa e del mondo della cultura). Insomma Salvini è un formidabile ariete politico, di cui ormai si parla in tutta Europa ed anche oltre (Steve Bannon docet), ma proprio per questo sta anche diventando la “preda” più ambita in quella grande partita di caccia grossa che è la politica (in Italia soprattutto).

Poi c’è quel pentolone in ebollizione che è il M5S, cioè il secondo elemento di fibrillazione del sistema. Beppe Grillo con le sue ansie, ormai a un millimetro da diventare pubbliche, Roberto Fico con i suoi distinguo, sempre più difficili da contenere e solo parzialmente compensati dall’iniziativa sui vitalizi, Di Battista lontano fisicamente ma vicinissimo e prontissimo a rientrare in scena.

E poi ancora la sindaca di Torino che spinge per le Olimpiadi (contro i governatori di Lombardia e Veneto) e quella di Roma che chiede un sostegno speciale per la capitale, per non parlare dell’irritazione del ministro Trenta (per le navi e i porti) e di quella del ministro Grillo (per i vaccini): il movimento è attraversato da vere e proprie onde sussultorie.

In questa condizione generale c’è un premier che si applica (per quel che può) con dedizione, cercando di non sbagliare parole o mosse. E c’è soprattutto un Di Maio che sta provando a giocare la carta del “grande mediatore” in qualche modo garante della coalizione nel suo complesso. Prova a mediare tra le anime del suo movimento, prova a gestire le frizioni con la Lega (difende Salvini sul sequestro dei 49 milioni ma non si oppone alle parole del ministro Bonafede, tutte favorevoli alla magistratura), prova a giocare di sponda con un pezzo del sistema nazionale, come ha fatto con la Cgil e buona parte del mondo cattolico sul decreto “dignità”.

Insomma un Di Maio che cerca di porsi sopra le parti, in qualche modo provando ad avere come suo orizzonte politico più l’alleanza Lega-M5S che il suo movimento di provenienza. È un difficile equilibrio quello del giovane ministro, che può comunque giovarsi dei frequenti attacchi di Renzi (musica per le sue orecchie), come sigillo della bontà del suo agire. Su di lui però pesa l’incognita autunnale, quando saranno i temi economici a prendere il sopravvento.

A quel punto parleranno i numeri, più difficili da plasmare. Per questo Di Maio sceglie la linea morbida, perché sa bene che non si potrà fare una manovra di bilancio contro tutto e tutti. Quel modo d’agire può andare bene con i barconi di migranti, ma con banchieri, agenzie di rating e papaveri dell’alta burocrazia non passa. Anzi, finisce per essere un boomerang micidiale.

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