Oltre vent’anni di guerra per bande, crudele e (apparentemente) indecifrabile. L’esercito governativo, le milizie locali, l’opposizione armata, i mercenari al soldo di chiunque paghi, il coinvolgimento dei paesi confinanti, i terroristi jihadisti dell’Adf affiliata a Boko Haram, la missione Onu (di recente depotenziata invece che implementata), la rapacità di certo Occidente ex-colonialista e della Cina padrona e della Russia che non vuole restare alla finestra.
In ballo il controllo delle enormi ricchezze minerarie del paese, tutti i metalli preziosi possibili e immaginabili e uno semi-sconosciuto, ma al top dei desideri e della cupidigia delle multinazionali mondiali del tirannico “tech”: il coltan, indispensabile – e conteso a suon di soldi e di sangue – per la telefonia cellulare, l’elettronica e l’aviazione – l’80 per cento della produzione del pianeta qui, nel devastato e infelice Congo, la sconfitta più totale dei diritti, dell’umanità, della democrazia (o gabbata per tale), delle libertà personali… Ma quali “libertà” se – tutti i santi giorni – devi prima affannosamente pensare a come salvare la pelle, a scovare un po’ di cibo e di acqua potabile per stare dritto in piedi, se sei donna a sfuggire agli stupratori seriali, etnici o non etnici, travestiti da soldati che combattono per controllare una terra comunque fertile, ma che solo chi imbraccia un fucile può sfruttare a vantaggio dei suoi finanziatori (i soliti noti nell’ombra)?!
Facile, direte, farsi trascinare dalla retorica umanitaria e solidaristica quando si assiste – anche per una manciata di giorni – a spettacoli disperati come quelli in cui ci si imbatte, contro cui si cozza con stupito raccapriccio, capitando in una qualsiasi delle diciotto (su ventisei) più incontrollabili province della sterminata Repubblica Democratica (?) del Congo, ex Congo belga, autonoma e sovrana – sembra una boutade – dal 1960, quindi preda di avvicendamenti al potere sempre avvenuti attraverso golpe militari, un fioco barlume di parlamentarismo e dialettica governo-opposizione appena dal 2001. Facile, certo, emozionarsi e puntare il dito contro colpe e responsabilità – molte esterne – senza essere capaci di indicare una strada, un possibile percorso di riscatto. Ma questa via non c’è. Oggi come oggi non c’è. Ci torneremo più avanti, se avrete la pazienza di seguirci. Adesso, spazio a qualche cifra. Dati, che vadano al di là delle emozioni. Dati che pochi hanno voglia, e interesse, a diffondere. Perché, se lo facessero, scatenerebbero una ridda di interrogativi imbarazzanti, privi della possibilità di ricevere risposte franche. Perché, se le risposte arrivassero, allora subentrerebbero i “processi”, sgraditi atti d’accusa nei confronti di Stati – e imprese – intoccabili. E ne vale la pena, si domanda pilatescamente il “mainstream” mediatico?
Il Congo, due terzi dell’Europa occidentale, grande quasi come l’India, 82 milioni di anime, tra i cinque e i sette milioni di morti ammazzati nelle guerre che si susseguono in un pazzesco intrico dal ’97, sette milioni e mezzo di sfollati da ricollocare (quattro milioni e più bambini), 700 mila che vivono – appena tollerati – da rifugiati nei campi profughi-lager di alcuni dei paesi confinanti, dall’Uganda al Burundi al Ruanda alla Tanzania fino al Kenya. Ben oltre la metà del Congo, il nord tutto, il sud una parte, è un inferno in terra. La più grave – e protratta – catastrofe umanitaria mai verificatasi nell’Africa già ricca di buchi neri. “Emergenza a livello 3”, il più alto nel sistema di classificazione internazionale. Tredici-quattordici milioni di persone che necessitano di protezione umanitaria totale. Significa che ogni minuto rischiano di morire per assenza d’acqua e malnutrizione o per carenza di medicinali e di cure, ammesso che non vengano raggiunti da un proiettile, uno dei tanti che vengono sparati con nonchalance nelle guerre o guerricciole che intorno non mancano mai. A rincarare la dose (come se non bastasse) il riesplodere – in maggio – dell’epidemia di Ebola, spauracchio anni duemila, decine di vittime, ma un andamento per ora relativamente circoscritto. E la fine annunciata – che grida vendetta – della grande foresta pluviale, la seconda nel mondo per estensione dopo l’Amazzonia, fino a qualche tempo fa rigogliosa e prodiga di risorse idriche, lasciata a se stessa, malinconico paradigma ecologico del più generale abbandono che sta soffocando il Congo e il suo incerto futuro.
A reggere con mano dura (da diciassette anni consecutivi) le sorti amare del gigantesco paese – mai diventato una nazione, diviso in centinaia di fazioni e tribù l’un contro l’altra armate – l’autocratico Joseph Kabila, 47 anni, asceso alla presidenza nel gennaio 2001 sull’onda dell’omicidio del padre, Laurent Desiré Kabila, che aveva a sua volta disarcionato il maresciallo dittatore Joseph Desiré Mobutu, ex-braccio destro di Patrice Lumumba, “padre della patria” ma spietato assassino. Kabila jr. – che non potrebbe essere eletto per un terzo mandato – nega dal 2016 le elezioni libere e democratiche che sono (finora vanamente) in agenda, rinvia il voto adducendo una sfilza di (false) ragioni, reprime brutalmente le proteste di piazza delle opposizioni esasperate e perseguita le influenti parrocchie cattoliche e i vescovi che lo incalzano e lo criticano, invitandolo alle dimissioni. Incarcerazioni, torture, bavaglio a quei pochissimi giornalisti che osano contraddirlo, il solito repertorio di nefandezze cui ci ha abituato (in buona compagnia) gran parte del continente nero.
Ma il governo, fortemente delegittimato, vacilla. Pochi giorni orsono, ecco allora l’annuncio dell’indebolito presidente: alle urne, stavolta sì… In dicembre. Appuntamento cruciale, in ritardo di tre anni. Da qui, dalle parole di Kabila, riprenderemo il discorso sul Congo. E discuteremo di un clamoroso piano radicale messo a punto dalla Casa Bianca per ristabilire laggiù un minimo di stabilità. Non si sa se verrà davvero attuato…