I cyber attacchi di Mosca hanno raggiunto un punto critico e costituiscono un “allarme rosso” per la sicurezza degli Stati Uniti. Il messaggio, tutt’altro che rassicurante, arriva dal numero uno dei servizi segreti d’oltreatlantico, Dan Coats, il potente capo della National Intelligence, l’organismo che coordina le 16 diverse agenzie che compongono l’intelligence community americana.
IL TIMORE DEGLI APPARATI DI SICUREZZA
Nelle parole dell’altissimo funzionario – che riporta direttamente alla Casa Bianca e che per ruolo siede nel Consiglio per la sicurezza nazionale – non si può non intravedere la grande preoccupazione che l’intero apparato della sicurezza statunitense nutre nei confronti dell’incontro che il presidente Donald Trump terrà domani a Helsinki con il suo omologo russo Vladimir Putin.
COME L’11 SETTEMBRE?
Non a caso, per descrivere il pericolo informatico posto dalle attività di Mosca (e di altri Paesi considerati ostili come Cina, Corea del Nord e Iran), Coats evoca una delle pagine più dolorose della storia americana, ancora fresca nella memoria collettiva. “Fu nei mesi precedenti all’11 settembre che, stando all’allora direttore della Cia George Tenet, il sistema lampeggiò rosso. E quasi due decenni dopo, sono qui a dirvi che l’allarme rosso lampeggia nuovamente”. Ci sono Paesi che ogni giorno, ha detto, “si introducono nelle nostre infrastrutture digitali e conducono una gamma di cyber intrusioni e attacchi contro obiettivi negli Usa” (grande attenzione è rivolta alle infrastrutture critiche).
E in questa situazione di pericolo generale, è proprio Mosca a preoccupare maggiormente i servizi segreti americani. “Oggi l’infrastruttura digitale che serve il nostro Paese è letteralmente sotto attacco”, ha spiegato Coats, aggiungendo che fra coloro che “continuano nei loro sforzi per minare la nostra democrazia”, la Russia è “l’attore straniero più aggressivo, senza dubbio”.
L’INCHIESTA DI MUELLER
L’ennesimo avvertimento dell’intelligence giunge, inoltre, a una manciata di giorni da un avanzamento decisivo di una delle inchieste americane più importanti degli ultimi anni, ovvero quella chiamata a far luce sulle interferenze di Mosca nelle presidenziali del 2016 che hanno decretato la vittoria di Trump: il cosiddetto Russiagate.
Il 13 luglio il gran giurì convocato dal procuratore speciale Robert Mueller, che conduce l’indagine, ha accusato formalmente 12 agenti dell’intelligence russa per i furti informatici ai danni del Partito democratico, nel corso di quella campagna elettorale che vedeva la dem Hillary Clinton sfidare il magnate newyorkese, candidato con i repubblicani.
Secondo quanto riferito dal dipartimento di Giustizia statunitense, gli accusati sarebbero agenti del Gru, il servizio d’intelligence delle forze armate russe, rei di aver rubato informazioni poi diffuse, secondo i democratici, con il preciso intento di danneggiare l’immagine del partito e della loro candidata.
L’ACCUSA
Nelle 29 pagine del documento che li accusa sono riportati anche aspetti tecnici, più volte richiesti dalla diplomazia di Mosca, che illustrano con dovizia di dettagli la complessa macchina messa in piedi dalla cosiddetta “fabbrica dei troll’ russa per influenzare, attraverso bot e social media, gli orientamenti politici dell’opinione pubblica americana.
GLI ALTRI SOGGETTI COINVOLTI
L’ufficio di Mueller ha finora accusato 20 persone e tre società, ottenendo cinque ammissioni di colpevolezza, tra cui quella del primo consigliere alla Sicurezza nazionale del presidente Trump, ovvero Michael Flynn, che lo scorso anno si è dichiarato colpevole di aver mentito all’Fbi sulle sue comunicazioni con l’ambasciatore russo negli Stati Uniti.
GLI AFFONDI DI TRUMP
La situazione, però, continua ad avvelenare il dibattito politico americano, soprattutto in vista delle delicate elezioni di midterm, in programma a novembre. In particolare, Trump, che ha definito Putin come “un competitor” e non “un nemico”, continua a credere in una distensione col Cremlino e a considerare questi avvertimenti di sicurezza come un attacco alla propria persona. “Questi individui russi”, ha twittato ieri l’inquilino della Casa Bianca, “hanno fatto il loro lavoro durante gli anni di Obama. Perché Obama non ha fatto qualcosa a riguardo? Perché pensava che Hillary Clinton avrebbe vinto, ecco perché. Non aveva niente a che fare con l’amministrazione Trump, ma le Fake News non vogliono denunciare la verità, come al solito!”.
IL TEMA CYBER
Il tema informatico, declinato anche alla guerra ibrida, lo ha dimostrato con chiarezza il vertice Nato appena concluso a Bruxelles, è però di primaria importanza sia per gli Stati Uniti sia per i loro alleati. L’ultimo vertice, concluso il 12 luglio, ha infatti sancito la creazione di un Cyber Operations Center. E difficilmente verranno ridotte le tante esercitazioni nello spazio cibernetico – riconosciuto dal summit di Varsavia come un dominio operativo dell’Alleanza Atlantica al pari di aria, mare, terra e spazio extratmosferico, in grado di attivare il celebre articolo 5 del patto sulla mutua difesa – che vengono ormai condotte sul fianco Est.
CHE COSA (NON) DEVE FARE LA CASA BIANCA
Ed è proprio su questo punto, sottolineano alcuni addetti ai lavori come Klara Jordan, a capo della Cyber Statecraft Initiative del think tank Atlantic Council, che Trump non dovrà cedere. Uno dei “rischi” dell’incontro tra lui e Putin, ha detto l’esperta a Fifth Domain, è che si giunga ad un accordo, ventilato in passato dalla stessa Casa Bianca, che limiti le esercitazioni cyber nei Paesi Baltici, al confine con la Russia. Queste manovre, di natura prettamente difensiva, sarebbero al momento le uniche a rappresentare, in ambito digitale, un efficace argine di deterrenza nei confronti della hybrid warfare in corso. Eliminarle potrebbe dare luogo a effetti inaspettati e, potenzialmente, pericolosi.