Messo in un angolo dalla decisione americana di uscire dall’accordo sul nucleare (Jcpoa) e di reintrodurre sanzioni che ne penalizzeranno anzitutto le esportazioni petrolifere, e pressato dalle proteste interne che riaprono la questione della sua legittimità, il regime iraniano sceglie di reagire in modo fermo quanto scomposto.
Da Vienna, dove ha incontrato il capo dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica Yukiya Amano, il presidente iraniano Hassan Rouhani definisce un “crimine ed un’aggressione” la mossa americana. “L’Iran sopravvivrà a questo round di sanzioni Usa come è sopravvissuto ad esse prima”, tuona Rouhani.
“Questo governo Usa non rimarrà in carica per sempre”, aggiunge il leader iraniano, come a dire che le scelte dell’attuale amministrazione americana sono reversibili, esattamente come lo è stato quel patto stretto nel luglio 2015 tra gli Stati Uniti guidati allora da Barack Obama, l’Iran e altre cinque potenze (i membri del Consiglio di Sicurezza Onu, Russia, Cina, Gran Bretagna, Francia, più la Germania, con la partecipazione dell’Unione Europea rappresentata dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera e di Difesa Federica Mogherini) rottamato l’8 maggio da Donald Trump.
Più che una posizione politica, le parole taglienti di Rouhani denotano la disperazione dell’attuale dirigenza della Repubblica Islamica, spiazzata dal clamoroso voltafaccia di un’America che, Trump regnante, ha deciso di cambiare corso rispetto alla politica di engagement e distensione perseguita dalla colomba Obama. Un cambio di rotta che costringe l’Iran a fare i conti anzitutto con le conseguenze delle sanzioni americane, che mettono a repentaglio non solo la principale fonte di introiti di Teheran, l’oro nero, ma anche tutti gli accordi commerciali che l’Iran si era assicurato dopo l’entrata in vigore del Jcpoa.
Facendo la voce grossa, Rouhani spera di convincere gli altri firmatari del Jcpoa a mantenere vivo l’accordo a dispetto dell’uscita del suo principale contraente. “La storia”, ha dichiarato ancora il presidente iraniano, “giudicherà le altre nazioni sulla base di ciò che fanno oggi”. Un’esortazione destinata però a infrangersi contro il muro delle sanzioni Usa che, secondo le intenzioni dell’amministrazione Trump, a partire dal 4 novembre costringeranno i paesi che importano greggio iraniano a rinunciare a questa fonte di approvvigionamento.
Il calcolo di Rouhani, che da mesi cerca di inserire un cuneo tra gli Usa e l’Europa, è vanificato da quelli dei paesi che spera di convincere: impossibile per loro schermarsi dalle conseguenze delle sanzioni Usa. È anche per questo che Rouhani gioca spregiudicatamente tutte le carte a sua disposizione. Compresa la minaccia di chiudere lo stretto di Hormuz e di impedire conseguentemente agli altri paesi del Golfo di esportare il loro petrolio.
“Gli americani dicono di voler ridurre a zero le esportazioni petrolifere iraniane”, ha spiegato da Vienna Rouhani. “Ciò dimostra” – è la sua conclusione – “che non hanno pensato alle conseguenze” di questa scelta. Le conseguenze cui accenna Rouhani divengono esplicite nelle parole di un comandante dei Guardiani della Rivoluzione, Ismail Kowsari. “Se vogliono fermare le esportazioni petrolifere iraniane”, dichiara Kowsari all’agenzia IRNA, “noi non consentiremo” il passaggio del petrolio delle altre nazioni “attraverso lo Stretto di Hormuz”.
La minaccia di Kowsari è ribadita anche da un altro illustre esponente dei Guardiani, il comandante della forza al-Qods generale Qassem Soleimani. Il quale, in una lettera pubblicata dall’agenzia IRNA, benedice la linea di Rouhani. “Io bacio la vostra mano”, scrive Soleimani, “per aver espresso simili commenti saggi e puntuali, e sono al vostro servizio per implementare qualsiasi politica che possa servire la Repubblica Islamica”.
L’inchiostro di Soleimani non fa però in tempo ad asciugarsi che arriva, pronta, la risposta degli Stati Uniti. I marinai americani e quelli dei suoi alleati regionali, dichiara il portavoce del Central Command Usa, capitano Bill Urban, “sono pronti ad assicurare la libertà di navigazione e il libero flusso commerciale dovunque la legge internazionale lo consenta”.
L’Iran, insomma, scherza col fuoco. E, non pago, aggiunge altra benzina, ventilando la fine della cooperazione con l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, chiamata dal Jcpoa a sorvegliare sul programma nucleare della Repubblica Islamica. “Le attività nucleari dell’Iran”, dichiara Rouhani a margine dell’incontro con il capo dell’IAEA, “hanno sempre avuto scopi pacifici, ma è l’Iran che deciderà il suo livello di cooperazione con l’IAEA. (…) La responsabilità del cambiamento del livello di cooperazione con l’IAEA”, conclude, “ricade su coloro che hanno creato questa nuova situazione”.
Più che agli Stati Uniti, la minaccia di Rouhani è rivolta all’Europa. La quale, sin dal principio, ha preso le distanze dalle posizioni americane. Francia, Gran Bretagna e Germania vorrebbero preservare il Jcpoa, che considerano l’unica via per contenere le ambizioni nucleari dell’Iran. Le parole di Rouhani sono volte dunque, almeno in teoria, a rinsaldare l’atteggiamento europeo.
Ma Rouhani sembra non fare i conti con la potenza del dollaro. Le sanzioni americane reintrodotte da Trump mettono la parola fine ad ogni prospettiva di cooperazione economica tra Europa e Iran. Ecco perché l’Iran alza il livello dello scontro. È il tentativo, disperato, di dividere le due sponde dell’Atlantico. E di isolare gli Stati Uniti e quel loro presidente che, l’8 maggio scorso, ha cancellato con un tratto di penna il Jcpoa e l’apertura all’Iran su cui gli europei avevano, troppo frettolosamente, scommesso.