Il rappresentante del Consiglio presidenziale libico, Mohamed Sayala, è volato a Pechino nei giorni scorsi dove, alla presenza del suo omologo cinese Wang Yi, ha firmato un memorandum d’intesa con il quale la Libia aderirà all’iniziativa Belt and Road, ossia la Nuova Via della Seta (anche Obor, acronimo di “One Belt, One Road” con cui il mondo anglosassone semplifica l’immenso progetto geopolitico studiato dal presidente Xi Jinping: mezzo trilione di dollari in investimenti in infrastrutture lungo le rotte commerciali da e per la Cina).
Sayala è membro del Gna, ossia il Governo di accordo nazionale che è guidato da Fayez Serraj e che rappresenta la spinta dell’Onu per risolvere la crisi libica. La Cina è uno dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite, e l’inserimento della Libia nei piani di Pechino è molto più che un aiuto diplomatico. “Fondamentalmente Obor è fatta da porti e infrastrutture, investimenti diretti e o in partnership con gli attori locali: se costruisci infrastrutture cerchi stabilità, ma allo stesso tempo potrebbe essere la costruzione stessa delle infrastrutture a dare quella stabilità”, commenta con Formiche.net Uberto Andreatta, senior corporate governance advisor presso lo Studio Legale Scala di Milano, esperto di fondi sovrani e investitori di lungo termine.
La via marittima di Obor sale verso il Mediterraneo da Suez e arriva all’Italia, dove a Venezia e Trieste si ricongiunge con la parte terrestre. La Cina ha già intavolato relazioni con l’Egitto, ma l’inclusione della Libia trasforma lo sbocco mediterraneo “non più in una semplice rotta, ma in una fascia territoriale, a cui, data la penetrazione cinese in Africa, si somma una porzione terrestre da sud”, spiega Andreatta.
Xi in questi giorni è impegnato in un’ampollosa visita di stato negli Emirati Arabi, che sono un importante partner (economico, finanziario e commerciale) con cui Pechino ha anche accesso al Nord Africa: la Cina ha piazzato investimenti miliardari in Algeria, ma anche in Nigeria, Sudan, Ghana, Tanzania, Zambia, Angola, Congo e Sud Africa, e ha costruito la prima base militare extraterritoriale a Gibuti (a poca distanza dalla sede dei droni americani nel Corno d’Africa). Poi, Xi sarà in Senegal, Ruanda, Sudafrica e Mauritius, attraversando quasi ogni angolo dell’Africa sub-sahariana, dove il peso economico della Cina e le ambizioni strategiche crescono di anno in anno.
A settembre, Pechino organizzerà un vertice afro-cinese – i 220 miliardi di interscambio annuo hanno portato l’Impero Celeste a dominare le partnership commerciali dell’Africa – a cui questa settimana è stato formalmente invitato anche Serraj. Nell’incontro cinese del ministro libico (ossia dell’uomo che rappresenta la diplomazia del piano Onu per il paese), Pechino, con Obor, ha promesso il ritorno delle imprese cinesi, secondo una proposta che era stata preliminarmente concordata; inoltre, si è parlato del ruolo cinese nel trovare una soluzione pacifica alla crisi libica e del contributo alla ricostruzione della Libia che la Cina può offrire.
“La rinascita infrastrutturale è parte della rinascita politica di un paese, e un investitore infrastrutturale se decide di muoversi lo fa traguardando obiettivi di lungo tempo: le infrastrutture, strade, ponti, porti, sono realtà durature che richiedono stabilità”, aggiunge Andreatta: “Ma se la Cina si piazza in Libia e decide di spingere la ricostruzione, lascerà poco spazio per altri attori: penso alla Francia o all’Italia, che non possono competere con il peso di Pechino”.
Però Roma ha la possibilità di costruire una saldatura, un network di interessi collegati con la Cina che potrebbe passare anche attraverso la Libia. Da pensare per esempio alla presenza cinese in Autostrade, con il 5 per cento detenuto dal Silk Road Fund, ossia lo specifico fondo che il governo di Pechino ha creato per sostenere Obor. Oppure CIC, il China Investment Corporation, il fondo sovrano cinese che ha una presenza rilevante nei Fondi italiani per le infrastrutture (F2I, sia nella società di gestione sia nei fondo “2“ che “3”), ossia nello strumento che fa da pivot italiano per le infrastrutture. O ancora, al 35 per cento della State Grid Europe (filiale europea di State Grid of China), in Cdp Reti, che controlla per la Cassa depositi e prestiti le reti infrastrutturali del gas, Snam (che a sua volta controlla Italgas, per la distribuzione interna in Itialia), e Terna per l’energia elettrica.
Ossia, la Cina potrebbe entrare pesantemente in Libia dove ha già piazzati sbocchi verso l’Italia: per esempio in Libia c’è il gas (su cui tra l’altro Eni lavora) e Pechino ha in mano il secondo azionariato – dopo Cdp, ossia il Mef, il Ministero di Economia e Finanza italiano – nel veicolo di investimento che ha in mano la società di gestione dei gasdotti italiani (Snam).
Questo network in divenire – anche sotto altre forme – potrebbe avere a questo punto valore geo-strategico per un altro player: gli Stati Uniti. Washington considera la Libia poco più che un territorio di caccia per jihadisti, anche se dal Pentagono si sta muovendo un interesse di carattere politico e strategico sulla stabilizzazione. Se la Cina dovesse entrare pesantemente nel paese nordafricano, a quel punto gli americani, che vedono Pechino come il principale competitor globale, potrebbero giocare altre carte, anche in funzione delle relazioni con l’Italia e l’Europa (con cui in questo momento la Casa Bianca è in lite, mentre l’Ue guarda alla Cina).
(Foto: Hong Kong Free Press)